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di Francesco Tropeano

 

Il 10 giugno 1940, l’annuncio di Mussolini della dichiarazione della guerra non sortì a Cinquefrondi grandi effetti. Eccetto che per quei quattro miracolati dal fascismo, che stupidamente si eccitarono per la tragedia incombente, tutta la popolazione accolse la malaugurata notizia quasi con indifferenza e con arrendevole fatalismo. Poi arrivarono le cartoline di precetto che imponevano la partenza per fronti lontani. Ogni giorno all’una di pomeriggio le famiglie si raccoglievano davanti alla radio per ascoltare quello che la popolazione chiamava il comunicato: era, in effetti, il bollettino quotidiano dello Stato Maggiore dell’Esercito che dava notizie, ovviamente false e distorte, sull’andamento della guerra, che a sentir loro andava a gonfie vele! Ma molte botteghe artigiane potevano contare su un’informazione alternativa (anche se altrettanto propagandistica) a quella dell’EIAR, la Rai di allora. Due erano le fonti alternative e tutte e due trasmettevano dall’estero. La più diffusa era Radio Mosca che trasmetteva in italiano solo alcune ore al giorno. “Attenzione! Attenzione! Qui parla Mosca. È Mosca che parla…” la voce di Radio Mosca è quella di Ruggero Grieco, politico, giornalista e attivista italiano, in prestito alla radio russa durante la Seconda Guerra Mondiale. La maggiore audience la raccoglieva con uno pseudo notiziario alle 19, preceduto e seguito da musiche ed inni rivoluzionari. L’altra fonte di informazione alternativa era Radio Londra, più paludata e meno appassionata di Radio Mosca, ma ugualmente propagandistica e manipolatoria. Gli ascoltatori di Radio Londra a Cinquefrondi si potevano contare sulle dita di una mano. Comunque la guerra, col suo carico di menzogne e propaganda, era iniziata anche per noi e, come sempre, la prima vittima fu la verità. Poi le vittime, a migliaia, cominciarono ad essere gli uomini e le donne della nostra terra trovatasi in mezzo agli opposti eserciti stranieri, proprio sul fronte di guerra.

In quei giorni di fine estate del 1943, giorni concitati e confusi, molti episodi sanguinosi si susseguirono. Fortunatamente l’abitato di Cinquefrondi fu risparmiato dai cannoni tedeschi in ritirata e dai bombardieri americani che ci sorvolavano minacciosamente tutti i giorni. I cinquefrondesi in gran parte erano sfollati sulle colline. E proprio su una di queste colline, la dolce Prunìa, le mitraglie tedesche ferirono, per rappresaglia ideologica, due ragazzini cinquefrondesi, poco più che sedicenni, Peppe e Michele. Il burbero, autorevole, mitico medico Galluzzo li ebbe in cura, avventurandosi negli impervi saliscendi delle mulattiere dell’epoca. Il giorno dopo sarebbe saltato il ponte sullo Sciarapòtamo e pioveranno schegge e pietre su tutto il paese. I carcerati ne approfittano e almeno una dozzina scappano dal carcere verso la fitta boscaglia di contrada Lacchi. Ai piedi di Ventriconi si imbattono in altre famiglie sfollate che li accolgono comunque, li sfamano ed in parte li rivestono. Sono piccole storie sepolte e dimenticate dalla memoria collettiva, storie popolari sacrificate nell’ansia di rimuovere quegli anni di sofferenze e di lutti.

La tessera del pane – Dall’inizio della guerra era in vigore il razionamento e  la tessera del pane, e con essi anche la fame e la carestia. Ma già anni prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale, l’alimentazione degli italiani era iniziata a peggiorare. Negli anni Trenta i problemi partono dall’alimento più prezioso, proprio dal pane. Nonostante gli sforzi del Regime fascista, che aveva avviato la cosiddetta “Battaglia del grano”, la produttività agricola rimane scarsa, specialmente al Sud. La farina di grano non è per tutti e l’uso di surrogati, come le farine d’orzo e di lenticchie, è piuttosto diffuso. I prezzi di pasta e pane bianco sono alti. Nel 1935 l’Italia subisce le sanzioni internazionali, a causa della guerra di aggressione in Etiopia. L’autarchia entra anche in cucina, dove si eliminano i cibi divenuti rari e si concepiscono surrogati talvolta davvero improbabili. Con l’inizio della guerra, le cose cambiarono, certamente in peggio. Le esigenze dell’esercito diventano prioritarie, così il Regime interviene sulla distribuzione e sui prezzi dei prodotti alimentari, al fine di ridurre i consumi dei civili al minimo indispensabile.

Viene introdotta la tessera annonaria, che resterà in vigore fino al 1949. La famosa tessera del pane. Si trattava di una carta personale che stabiliva il razionamento, permettendo di prenotare gli alimentari e in seguito anche il vestiario. Il razionamento è diverso in base alle fasce d’età e di conseguenza le tessere hanno colori diversi: verde per i bambini fino a otto anni, azzurro dai nove ai diciotto anni e grigio per gli adulti. Il venditore staccava il cedolino di prenotazione apponendo la propria firma e in seguito si potevano ritirare i prodotti prenotati, in una o due date stabilite, ma sovente alla data stabilita c’era ben poco, anche di quel poco che si era potuto prenotare. A causa della variazione mensile dei prezzi, spesso si cercava di prelevare tutto il possibile in un unico appuntamento. Le date di prenotazione e ritiro erano annunciate con dei manifesti o attraverso un banditore che percorreva le vie del paese al rullo di un tamburino e seguito da una scia di bambini scalzi e saltellanti. I produttori, soprattutto di alimenti, potevano tenere per sé solo una piccola parte della produzione, il resto doveva essere versato all’ammasso. Le autorità amministrative decidevano come suddividerlo, riservando la gran parte per le truppe al fronte. C’erano severi controlli anche nelle case soprattutto in seguito ad invidiose spiate. Erano rari i controlli nei possedimenti dei grossi agrari. Ovviamente.

Il razionamento determinava anche le caratteristiche dei prodotti, come ad esempio la miscela di farine per fare il pane, a cui si poteva aggiungere la farina di patate, di crusca o di mais. Ne veniva fuori un pane scuro e insipido perché anche il sale era razionato. Col proseguire della guerra le cose tenderanno sempre più a peggiorare. Il pane, ad esempio fu ridotto fino a 150 grammi al giorno e la carne a 400 grammi la settimana. Così le razioni diminuirono gradualmente, e molti beni divennero razionati col contagocce, e non solo metaforicamente. Il latte, ad esempio, veniva dato solo per i bambini, e dietro ricetta medica.

Cicoria tostata surrogato del caffè – E nel mezzo, fioriva il “mercato nero”, con privati che rivendevano merce (non consegnata all’ammasso o spesso sottratta furtivamente nei depositi comunali o nelle abitazioni civili) a prezzi enormemente maggiorati, con la gente che tuttavia vi si rivolgeva, sia per “arginare” i limiti imposti dal governo fascista, ma soprattutto perché gli scaffali dei negozi erano ormai quasi sempre vuoti e si faceva realmente la fame. Ecco come descrive quantità e qualità del cibo nel 1941 un cittadino di Gioia Tauro, in una lettera intercettata dalla censura fascista: «I cibi…sono pessimissimi e nocivi. Il pane, composto di una miscela, è un impasto che si mangia per la fame; ma non da né sostanza né nutrimento… la sera poi si va a letto senza cenare per mancanza di tutto! La pasta quando si mangia ha sapore di crusca. Empiamo lo stomaco di patate e fra poco sulla testa ci spunteranno le piante. Olio mistificato senza sostanza. Però poi vi sono delle famiglie che hanno olio buono, ce lo fanno pagare a 13 lire, ma in caso di estremo bisogno si trova». I cinquefrondesi pensavano di stare passando uno dei loro periodi più neri. Si sbagliavano. Il peggio doveva ancora venire.

1943: suonano le sirene e fischiano le bombe – “La costa tra San Ferdinando e Rosarno è stata arata, come dicono i contadini, zappata dai proiettili”. Così annota nel suo diario del 1943 lo scrittore Fortunato Seminara, riferendosi ai bombardamenti quasi quotidiani dell’aviazione americana ed inglese in quella fatidica primavera – estate. La guerra era iniziata da tre anni, ma finora avevamo sofferto solo, si fa per dire, la fame, la carestia e il dolore per i giovani figli strappati alle famiglie ed inviati a morire in lontani fronti di guerra. Ora si doveva anche pagare un alto tributo di sangue, di morte e distruzione.

Ma riavvolgiamo un attimo il nastro. Il 10 giugno 1940, Mussolini, dal solito balcone di Palazzo Venezia, in quella che poteva sembrare l’ennesima clownesca pantomima, proclama invece la guerra a Francia ed Inghilterra, facendo così precipitare l’Italia nel baratro del secondo conflitto mondiale. Eppure pochi mesi prima, il Gran Consiglio del Fascismo, presieduto da Mussolini stesso aveva dichiarato la non belligeranza. Piccola contorsione bizantina per non dire neutralità e lasciarsi la porta aperta per eventuali futuri, sciagurati, colpi di testa. Riunirà il Gran Consiglio solo dopo 3 anni, a luglio del ’43, quando tutto sta andando, inevitabilmente, a rotoli e sarà ovviamente sfiduciato dai suoi stessi notabili. Quindi l’arresto, la prevedibile evasione e l’ultima sanguinosa avventura dei 600 giorni della Repubblica di Salò, dove pur essendo quotidianamente in divisa, non volle mai alcun grado. Capiva anche lui di essere niente più che un soldato semplice agli ordini di Hitler.

Con il 1943 la guerra si avvicinava pericolosamente ai nostri paesi con il suo carico di morte. Le truppe alleate avevano conquistato il nord Africa ed i sempre più minacciosi e quotidiani passaggi aerei sui nostri cieli si trasformarono anche in sanguinosi bombardamenti.

Gli inglesi avevano adottato la strategia dei bombardamenti a tappeto nei centri abitati, il cosiddetto metodo Area bombing. Come d’altra parte facevano i tedeschi. E’ difficile stabilire chi per primo, tra i vari eserciti, abbia fatto ricorso al bombardamento indiscriminato e terroristico; appena ne ebbero la possibilità, gli inglesi ripagarono i tedeschi con la stessa moneta. Secondo ambedue, colpendo le città a tappeto c’erano evidenti vantaggi strategici.

In primis si terrorizzava (e si ammazzava) la popolazione, si interrompeva l’erogazione di luce e gas, si paralizzava la produzione e se, nel mucchio, si colpiva pure qualche obiettivo militare o comunque essenziale alle operazioni militari come industrie, porti e stazioni, tanto meglio! Comunque a nessuno venne mai in mente (né allora, né adesso) di cambiare metodologia di attacco per le evidenti sofferenze e per le stragi di popolazione civile.

Gli americani invece, da primi della classe, predicavano il bombardamento mirato. In realtà o avevano una pessima mira o predicavano male e razzolavano peggio. Molti bombardamenti americani produssero infatti distruzione e morte soprattutto tra i civili. Loro li chiamavano danni collaterali. Alla fine la popolazione capì soltanto una cosa: se le bombe piovevano di notte, erano gli inglesi che bombardavano. Se le sirene ululavano di giorno voleva dire che stavano arrivando i B24 americani.

Il  31 gennaio 1943 perde la vita durante un bombardamento l’Arcivescovo di Reggio, mons. Enrico Montalbetti. Ma le bombe arrivano ben presto anche a ridosso di Cinquefrondi.

A las cinco de la tarde – Alle cinque della sera del 20 febbraio 1943 vengono bombardate dagli aerei americani i comuni di Gioia Tauro, Cittanova ed Amantea. Il Bollettino del Comando Supremo delle Forze Armate Italiane n. 1002 – 21 febbraio 1943, così minimizza l’avvenuto: “… Inoltre sono state sganciate alcune bombe in Calabria sulle località di Amantea, Gioia Tauro e Cittanova. Alcune vittime tra la popolazione civile…”. I giornali nazionali La Stampa ed il Corriere della Sera riportano la notizia del bombardamento in poco visibili trafiletti e riducendo drasticamente il numero delle vittime.

Il report ufficiale del quartier generale americano ci fa sapere che gli aerei erano partiti dalla Libia per bombardare Napoli, ma essendoci poca visibilità, ritornano indietro; ma passando dalle nostre parti pensano bene di sganciare qualche bomba sui centri abitati, almeno così la missione non andava a vuoto! E poi l’atterraggio con la stiva carica di bombe era considerato molto pericoloso e da evitare assolutamente.

In realtà il bilancio del bombardamento fu già impressionante nella immediatezza del momento. Ma come sapremo nei giorni e mesi successivi il bilancio dei morti, in seguito alle gravi lesioni riportate dai feriti, sarà destinato a salire notevolmente.

  • 103 morti e più di 200 feriti a Cittanova;
  • 45 morti e un centinaio di feriti a Gioia Tauro;
  • 26 morti e circa cento feriti ad Amantea.

 

Briefing prima della missione –  Fortunato Seminara, nel suo rifugio di Pescano, così descrive quel tragico pomeriggio: “mentre il sole sta per tramontare gli aerei bombardarono Gioia Tauro e Cittanova: Si vedono prima delle nuvole di polvere sollevarsi da terra e un istante dopo si odono gli scoppi fortissimi che fanno tremare la casa. Gli aerei procedono ordinati ad angolo, senza fretta, come in una esercitazione; e pare che non ci sia relazione tra essi e gli ordigni che scoppiano a terra, cagionando morte e rovine” (F. Seminara, “Luminarie sulla piana”, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”)

A Reggio succederà la stessa cosa dopo i violenti e martellanti bombardamenti di maggio con migliaia di morti e decine di migliaia di feriti. In una Reggio semideserta non rimarranno più neanche gli uffici più importanti che saranno trasferiti sulla Piana.

Così sarà per la Prefettura, spostata a Cinquefrondi, mentre il Distretto Militare troverà posto a Polistena. La Banca d’Italia, l’Ufficio Provinciale del Tesoro e l’Intendenza di Finanza si riposizioneranno a Varapodio. Ad Oppido ci sarà l’ospedale della Croce Rossa.

I passaggi aerei sui nostri cieli si andarono intensificando mano a mano che passavano i giorni e si avvicinava lo sbarco alleato in Sicilia, la famosa operazione Husky, che si concretizzò il 10 luglio 1943. La popolazione era terrorizzata e si rifugiò buona parte nelle campagne. Le colline di Prunia, Ventriconi, Trachè, Busale, non furono mai così popolate. Gruppi di famiglie occuparono angusti casolari per mesi e mesi. Iniziava lo sfollamento.

Intanto il cibo era sempre più razionato ed ovviamente, per la banale legge della domanda e dell’offerta, i prezzi dei generi di prima necessità ebbero un’impennata verso l’alto, a cominciare dal pane. Se prima della guerra un kilo di pane costava 1,80 lire, nel 1943 si trovava al mercato nero per non meno di 8 lire al kilo. La pasta da 3 lire al kilo passò a 9 lire. Come in tutti periodi di crisi, pochi si arricchirono, la maggior parte soffrì la fame e l’indigenza e la tessera del pane garantiva sempre meno pane e sempre più lunghe e caotiche code davanti ai negozi tra l’ululare delle sirene e il rombo delle squadriglie aeree.

Arrivano i tedeschi – «Dopo la caduta della Sicilia, la Calabria è divenuta la prima linea del fronte di guerra. Battuta secolarmente dai terremoti e dalle alluvioni, distrutta e ricostruita almeno una volta ogni secolo, conosce ora la più grande rovina, quella che non ne colpisce solamente le abitazioni costruite, Dio sa con quanta pena, vissute, Dio sa con quante lacrime, traversie, emigrazioni, lontananze, rimpianti, ritorni, ma distrugge la terra stessa… Dopo i bombardamenti la guerra ha travolto tutto il territorio calabrese… La Calabria investita dalla guerra, s’è trovata per lunghi mesi sulle vie della guerra, che è peggio […]» Così scriveva Corrado Alvaro sul “Popolo di Roma” .

Nonostante i preparativi fatti perché la 26° PanzerDivision partisse per combattere contro i sovietici, a fine giugno del 1943, lo Stato Maggiore tedesco, comunicò al comando divisionale una nuova destinazione: l’Italia; il trasferimento iniziò subito, accelerato a partire dal l0 luglio alla notizia che gli Alleati erano sbarcati in Sicilia. Intanto la 29° Panzergrenadier Division, distrutta nella campagna di Russia, viene ricostituita ex novo e mandata anch’essa in Italia. Prima tappa Foggia. Da qui le due Divisioni tedesche arrivano in Calabria. La 26° Panzer Division si posiziona nel restringimento  tra Catanzaro e Lamezia, mentre la 29° Panzergrenadier Division si dispiega nella Piana a semicerchio, partendo dalla zona montuosa sopra Bagnara, verso Sinopoli, fino all’abitato di Rizziconi. Gli uliveti secolari della Piana si popolano così di mezzi corazzati, accampamenti e truppe tedesche. Si delimitano due polveriere adibite a deposito munizioni ed esplosivi: una tra Taurianova e Cittanova, nei pressi dell’attuale Uliveto Principessa ed una tra Rizziconi e Gioia Tauro, dove ora sorge il Porto degli Ulivi. Il generale Walter Fries è il comandante supremo della Divisione, mentre il comandante sul campo è il Colonnello Ulich, che comunque resterà poco nella Piana. Infatti il 26 luglio con una parte della 29° Panzergrenadier Division si porterà in Sicilia per dare manforte alle truppe impegnate contro gli Alleati. Ritornerà nella piana giusto per ferragosto.

Ma le truppe tedesche non stavano acquattate tra Taurianova e Bombino. Lì era posizionato il comando di zona. A Cinquefrondi erano di casa. Avevano un accampamento proprio fuori paese, sulla strada per Perciana, dove  adesso c’è l’acquedotto. Insomma occupavano il piccolo altopiano della Kabedhra. E spesso ne affollavano le cantine paesane. Avevano piazzato tre cannoni della contraerea proprio tra le case. Uno vicino al Rione Giardino, un altro in via Dante, proprio dove ci sarà la caserma dei carabinieri, e l’ultimo in Via Regina Elena.

I rapporti con la popolazione erano non proprio fugaci, ma quasi sempre si limitavano a scambi da mercato nero. Molti contadini si recavano all’accampamento tedesco della Kabedhra col bbirrettedhru d’olio ed i bambini gli correvano dietro perché sapevano che i soldati, come succedeva ogni volta, avrebbero regalato loro le gallette. Di pane, ch’era razionato come tutti gli altri generi, c’era ben poco da dare, non essendo nemmeno sufficiente a sfamare la famiglia.  Pomodori, melanzane, uova, alici salate, patate, lupini, verdura, olio, vino erano la merce italiana offerta da contadini, commercianti e finanche funzionari comunali. I tedeschi potevano pagare in marchi, ma la difficoltà di scambiarlo con la lira faceva spesso preferire il baratto con sigarette e cioccolato. Le sigarette più richieste erano le Entre 23, un vero must per i fumatori, mentre altrettanto richiesto era il famoso (e famigerato) Panzerschokolate, il cioccolato nazista che, come tanti alimenti destinati alle truppe, poteva contenere dosi massicce di anfetamine. Comunque, sia il cioccolato che le sigarette si rivendevano al mercato interno dei paesi, sempre di contrabbando, ricavando notevoli profitti. Molti ci rimasero male quando i tedeschi si ritirarono. Ma il magone durò pochi giorni. Ai tedeschi subentrarono gli americani ed il gioco del mercato nero continuò imperterrito per lungo tempo e più fiorente che mai.

Gli Alleati malgrado il grande potenziale di bombardieri, truppe corazzate e artiglieria pesante ci impiegano 40 giorni a conquistare la Sicilia, un’eternità.  I due generali che guidano l’invasione: l’energumeno americano Patton e il narciso inglese Montgomery si odiano cordialmente. Più che per strategia militare, le loro vittorie sono conseguite per l’inesauribile disponibilità di mezzi bellici. La seconda rivoluzione industriale, con il fordismo, aveva introdotto, in America, la catena di montaggio, mandando a farsi friggere il sapere operaio. In questo modo l’industria civile si potè riconvertire in industria bellica in un batter d’occhio, senza grandi trasformazioni. L’operaio alla catena neanche si accorse che la chiave inglese che adoperava per tutto il giorno, prima aveva creato trattori ed ora invece carri armati. Il lavoro veniva scomposto in azioni semplici e ripetitive.

Nei fatti i generali alleati si dimostrarono particolarmente pivelli, lasciando che le truppe tedesche (ed italiane) abbandonassero praticamente indenni la Sicilia, con relativamente scarse perdite umane e arsenali bellici pressoché intatti. Infatti nei giorni intorno a ferragosto 1943, con una brillante operazione, le truppe dell’Asse avevano attraversato lo Stretto e si erano riposizionati in Calabria, malgrado l’incessante bombardamento aereo. I generali alleati si accorgeranno ben presto dell’errore, quando sia durante lo sbarco di Vibo che quello di Salerno, saranno violentemente contrastati e quasi ricacciati in mare, proprio da quelle truppe tedesche rientrate dalla Sicilia.

Vita da sfollati – Prunìa è una amena collina proprio a ridosso dell’abitato di Cinquefrondi. Oggi è di facile accessibilità grazie ad una micro bretella che la congiunge allo svincolo est della superstrada. E’ percorsa da una capiente strada in cemento che la attraversa completamente e va a finire tra i lussureggianti boschi delle Logge per sboccare proprio a fianco del Primo Casello. Ma nel 1943 la situazione era completamente diversa. Per raggiungere Prunìa bisognava prima percorrere tutta via Dante Alighieri fino alla curva dell’Ambesa. Poco prima della curva si imboccava un viottolo sterrato delimitato da rovi e spine e dopo alcune decine di metri si presentava davanti una scarpata: la calata dell’Ambèsa. Qui bisognava percorrere in discesa uno stretto sentiero a serpentina che portava a livello del fiume Sciarapòtamo. A metà della scarpata si incontrava un limpido ruscelletto che bisognava saltare per proseguire sullo stesso sentiero non più largo di mezzo metro. Arrivati in fondo, sul piano, c’era un piccolo spiazzo occupato da un frantoio. I frantoi non si chiamavano ancora trappiti, bensì machine. A cui seguiva il nome (e più spesso il soprannome del proprietario). Così c’era la machina di Guerrisi, quella di Palermo ecc… Per arrivare a Prunìa, bisognava proseguire oltre il frantoio, girare a destra ed imboccare una ripida mulattiera lastricata di sassi e pietre di fiume. Una faticaccia! Ma dopo alcuni, lunghi minuti di salita tagliafiato già si intravedevano i primi poderi e le prime casedhe.

Per arrivare a Prunìa c’era anche una via alternativa che partiva da Santa Maria, passava davanti al frantoio, anzi a quella che sarà la machina di Tropiano, costeggiava il fiume ed arrivava ai piedi della mulattiera. Era questa la via che percorrevano i muli per portare il mosto nelle case dei cinquefrondesi.

Infatti una delle coltivazioni principali della dolce collina era proprio la vite. Ovviamente sulla tavola non poteva mancare il vino. Le colline, coltivate a vite, intorno a Cinquefrondi, come Prunia o Trachè, o quella di Pescano a Maropati (buen retiro di Fortunato Seminara), per la loro esposizione al sole garantivano una discreta copertura del fabbisogno enologico cittadino. Anche questa bevanda arrivava sulle tavole dopo un lungo processo che partiva dall’accurata coltivazione della vite (cu la vigna veni la tigna), alla vendemmia, alla pigiatura dell’uva fatta con i piedi sopra gli assi del palmento, alla fermentazione naturale del mosto e il successivo travaso nelle botticelle, che a dorso di mulo, arrivavano in paese per essere quindi svuotate nelle botti tradizionali di casa. Qui si completava la maturazione del mosto e si conservava quindi quella che sarebbe diventata la bevanda principe di ogni pasto.

I nostri due ragazzini, Peppe e Michele erano sfollati proprio a Prunìa. Insieme con le rispettive famiglie condividevano un piccolo casolare, in un fazzoletto di terra che si affacciava sulla vallata dello Sciarapòtamo, proprio di fronte ai ruderi del convento di San Filippo. Il terreno non era su un piano, ma comprendeva cinque terrazzamenti. I primi quattro terrazzamenti erano coltivati a vite. Il quinto, il più esteso, era un gigantesco balcone sul fiume e godeva di un eccezionale panorama su quasi tutta la Piana fino al mare. Anche questo era coltivato. C’era qualche olivo, una decina di aranci ed un piccolo riquadro coltivato a lupini. Tutto intorno era delimitato da un lussureggiante castagneto e qualche quercia, che segnavano i confini della proprietà. Il casolare, non più grande di 22-25 metri quadrati, era composto da un unico locale ed occupava parte del terzo terrazzamento. Davanti all’aia campeggiava una bella pergola ed alla sua ombra si mangiava e quando c’era un po’ di tempo libero, si chiacchierava. Insomma era quella la cucina, con cottura rigorosamente a fuoco vivo, la  sala da pranzo e il soggiorno. Il menù era tipico del periodo: pasta e patate e per secondo patate ‘mbrodetto e poi erbe e verdure di tutti i tipi (certamente a metro zero!). Era agosto, ma ancora c’era qualche piccola riserva invernale, razionata spasmodicamente in quegli ultimi mesi, soprattutto qualche capo di salame ed un fondo di cortara di frittole intrise di sugna. A quei tempi i maiali si allevavano spesso anche in casa e nel periodo invernale si macellavano artigianalmente con un rituale antico. Era impegnata tutta la famiglia e spesso partecipavano anche parenti ed amici. Le procedure più delicate erano sempre appannaggio delle donne di casa, come ad esempio, la perfetta grammatura del sale occorrente o l’eliminazione dell’aria mentre si riempivano le salsicce effettuata punzecchiando il budello con un ago. Preparàti i vari tipi di salame e appesi al soffitto in una stanza protetta dalle mosche e preferibilmente buia, non rimaneva che cucinare tutto il rimanente di carne e di ossa in un capiente pentolone.

La caddara – Così la caddara con i rimasugli si consumava nei giorni immediatamente seguenti, mentre il resto veniva conservato per i mesi successivi. C’era la cortara per la sajimi e quella delle salimorate (la più ghiotta) con piccoli ciccioli di carne che residuavano dalla caddara delle frittole e infine la cortara delle frittole stesse, saporite cotiche di maiale. Era un procedimento gastronomico che aveva anche un risvolto sociale e solidale. Alla caddara, infatti, seguivano le mandate: un bel piattone con un misto di frittole, frattaglie ed ossa che veniva “mandato” a casa delle famiglie amiche. I fronzoli di carne magra rimasta attaccata alle ossa della caddara erano l’ingrediente più sfizioso. Ma non era finita qui. Siccome del maiale non si butta niente, l’astragalo o meglio piddhraru, ossicino del tarso tra tibia e calcagno nell’articolazione della caviglia, in questo caso del maiale, rappresentava uno dei giochi più frequenti per i bambini dell’epoca. La pratica del gioco degli astragali, è comunemente considerata come l’antecedente del gioco dei dadi. La forma degli astragali presenta due facce piatte, una faccia concava ed una convessa.

Ad ogni faccia veniva attribuito un valore numerico specifico, ma nella semplificazione adottata dai bimbi di allora, la parte convessa, che rappresentava lu porcu, era quella col più basso valore, perché era quella che più facilmente si otteneva lanciando il piddhraro a mò di dado. Se usciva la parte piatta si diventava Re e si imponeva un pegno all’avversario, che spesso era soltanto un colpo di bacchetta sulle palme delle mani. Quando usciva porcu chi era di mano perdeva la possibilità di tirare ancora, doveva pagare il pegno imposto dal Re ed il lancio passava all’altro giocatore. Certamente una vestigia della Magna Grecia. Omero ne parla nell’Iliade quando il defunto Patroclo appare in sogno ad Achille, reclama una sepoltura comune per entrambi e ricorda il motivo del suo arrivo alla casa di Peleo. Difatti, rivela di essere stato bandito dalla sua patria, la Locride, per il crimine commesso da bambino in un eccesso d’ira contro un rivale al termine di una partita al piddhraro finita tragicamente: “Quando Menezio mi condusse bambino venendo da Opunte, perché nella collera avevo ucciso sciaguratamente il figlio di Anfidamante (Cleonimo), giocando agli astragali, il cavaliere Peleo mi accolse nelle sue dimore, mi allevò amabilmente e mi scelse come tuo scudiero”.

Ma i giochi dei fanciulli prima, durante ed anche negli anni dopo la guerra erano innumerevoli. Così innocenti e così artigianali. Ognuno di loro meriterebbe una descrizione approfondita giusto per respirare l’aria di quei tempi e l’ingenuità di una generazione vissuta nella miseria, ma ricca di fantasia e ingegno. Ne elenco soltanto alcuni, che i più vecchi tra i lettori riconosceranno certamente:

  • Gadhinedha zoppa zoppa
  • Lu cucuzzaru
  • Miru, miruzzu di bonsurà (Monsoreto)
  • Lignedha (pizzicu, pani e sozzizzu)
  • Pignarò
  • La settimana
  • Lu quathrettu, che si giocava con i tappi
  • La nuci dentata
  • La carretta con le ruote di arance ancora verdi
  • Lu piroci
  • Ammucciatedha o libaru
  • Lu petrudhu
  • Giggino, giggetto
  • Unu montileuni
  • La singa

Spesso, ad alcuni di questi giochi, era collegata una filastrocca cantilenante che serviva per contare al posto dei numeri e permetteva quindi anche ai più piccolini di giocare senza dover per forza conoscere e distinguere i numeri.

Uno spettro si aggira per l’Ambèsa – L’interno del casolare di Prunìa era in gran parte occupato da un palmento sopraelevato e una fossa cilindrica e profonda che raccoglieva il mosto proveniente dalla pigiatura e dove lo si lasciava fermentare per qualche giorno. Ovviamente eravamo in estate, non era tempo di vendemmia, allora non c’era il cambiamento climatico e si vendemmiava ad ottobre inoltrato. Così il palmento coperto dalle assi era diventato un letto matrimoniale reso meno scomodo da due materassi di pannocchie di granturco. A rendere più angusto lo spazio a disposizione c’era anche un grande torchio, lo sthrittorio. Il pavimento restante era coperto da altri materassi di scarafogghie. In tutto, in quei pochi metri dormivano 9 persone, tra adulti, ragazzi e bambini. Non c’era acqua corrente per cui si portavano dal fiume diverse damigiane d’acqua al giorno, inerpicandosi faticosamente per quella ripida mulattiera. Anche il bucato, quello grosso, ogni settimana, massimo due, si faceva sotto alla fiumara, l’unico posto dove c’era acqua corrente. Non c’era il Dash, né altri detersivi chimici.

Per fare la vucata, cioè lavare un grande quantitativo di panni si usava, come sbiancante, una soluzione ottenuta versando dell’acqua bollente sopra uno strato di cenere bianca, proveniente da legni poveri, come ginestre, rovi, acacie, sopra un telo ampio a trama fitta, o, molto più spesso, un vecchio lenzuolo rattoppato. Ma prima, si doveva togliere lo sporco dai polsini e dai colli delle camicie, – a quell’epoca lo sporco era davvero sporco! – e le macchie più ostinate, strofinando i panni con il sapone fatto in casa (si facevano bollire, insieme soda caustica, pece greca, scarti di grasso od olio esausto e si profumava con lavanda, foglie di menta o basilico).

Ovviamente non c’era neanche l’energia elettrica. Quando il sole tramontava era meglio iniziare a cenare perché mano a mano che la sera diventava notte, il buio circondava il casolare in una fitta cortina rischiarata ritmicamente dai bagliori lontani dei bombardamenti aerei alleati, che in quelle ultime notti di agosto si erano fatti più frequenti e martellanti. La vita in casolare seguiva i ritmi rigidamente naturali. Si iniziava all’alba e si terminava al tramonto. La sera alla luce di un’artigianale lampada ad olio, la lumera, si raccontavano fiabe per i più piccini ed anche racconti con qualche brivido per i più grandicelli.

La lumera – Quella sera di martedi 31 agosto 1943, mentre, come ogni sera, erano tutti, nella semioscurità, intorno alla lumera, accovacciati sui materassi o seduti su dei pezzi di tronco che rappresentavano le uniche sedie presenti, la mamma di Michele comincia a raccontare la storia, molto popolare a quei tempi, sui fantasmi che popolavano Prunìa e la calata dell’Ambèsa, durante le buie notti senza luna. Era una donna di chiesa, molto ingenua e credulona. Infatti credeva ciecamente e facilmente nel soprannaturale e soprattutto negli spiriti, o meglio mali spirdi, come erano allora chiamati i fantasmi; e se Michele e Peppe, che si sentivano ormai grandi, si mostravano scettici e scafati, lei li tacciava immediatamente come irresponsabili miscredenti, perchè, secondo lei, la presenza del soprannaturale dimostrava anche la presenza di Dio. E poi c’era dell’altro. E la sua famiglia, molti anni prima, ne aveva avuto prova e subito le conseguenze.

Lei era piccolina, cinque, sei anni al massimo. Stava sempre in casa con la mamma. Suo nonno era contadino e lavorava nei campi : a Santo Nicola oppure proprio lì, a Prunìa. Una sera d’autunno inoltrato, quando inizia a fare freddo e le giornate si accorciano, si era attardato, oltre il tramonto, in quel pezzo di terra a Prunìa, intento a seminare lupini e fave. Quando finì l’ultimo scoledhu, si era accorto che ormai era proprio buio e per finire il lavoro aveva perso quegli ultimi bagliori di luce che gli permettevano, come ogni sera, di vedere dove metteva i piedi sugli scoscesi sentieri della via del ritorno a casa, in quella che sarà via Calatafimi, allora era soltanto Santa Maria. Discese la mulattiera un passo dietro l’altro, cercando di scansare le spine e i rovi che gli graffiavano il viso e le mani e si attaccavano testardi a quella vecchia giacca da lavoro. Certo conosceva la strada a memoria, ad occhi chiusi si direbbe, ma quella sera avrebbe certamente avuto bisogno almeno di qualche raggio di luna. Ma niente. Era buio pesto. Ci mise un tempo lunghissimo, quasi mezzora, prima di arrivare allo spiazzo davanti al frantoio. Di solito ci arrivava in meno di dieci minuti: la mulattiera di pietre era in ripida discesa e si percorreva, con destrezza, quasi di corsa. Fortunatamente, nello spiazzo davanti al frantoio, il buio si era diradato ed un leggero chiarore azzurrognolo rischiarava la notte. Si guardò intorno e tirò un respiro di sollievo. L’aria sapeva di umido, di erba e di terra. Alzò gli occhi: sopra di lui si ergeva la scarpata dell’Ambesa avvolta comunque nel buio. Il fiume brontolava poco lontano. Si apprestò ad imboccare il tortuoso sentiero a zig zag ed iniziare la salita. Aveva fatto pochi passi quando vide che il sentiero era sbarrato da qualcosa che lo ostruiva, sembrava un otre, lo tastò delimitandone le dimensioni e saggiando la consistenza.

Sì… era proprio un otre pieno che conteneva un liquido. Quasi sicuramente olio, era vicino al frantoio! Qualcuno se l’era dimenticato nell’ oscurità che circondava la zona. Gli otri erano recipienti molto usati qualche secolo fa. Si ricavavano dalla pelle di capra come una zampogna, ovviamente senza canne di melodia. Servivano per trasportare il vino o l’olio.

Il bisnonno, o meglio ‘u pappù vecchiu, di Michele, dopo qualche titubanza, si caricò l’otre sulla schiena e cominciò ad inerpicarsi sul sentiero dell’Ambèsa. Se lo lascio qui pensò, non avrà vita lunga. Certamente sarà preda di animali che lo distruggeranno e ne disperderanno l’olio. Per ora lo porto a casa e se qualcuno lo reclamerà non ci saranno problemi a restituirlo. Con questi pensieri e la schiena semipiegata dal peso, aveva già percorso un quarto della salita. Ma ad ogni passo quell’otre sembrava pesare sempre di più. Il sudore gli imperlava la fronte: dovette fermarsi e riprendere fiato. Si asciugò il sudore che gli era entrato finanche negli occhi e gli procurava un bruciore terribile. Qualche minuto dopo era pronto a riprendere la salita. “Sto proprio invecchiando – pensò – una volta facevo questa salita tutta d’un fiato, anche con sacchi di olive ben più grandi di quest’otre”. Si risistema l’otre sulle spalle e riprende a salire. Ma fatti pochi passi, il peso diventa insopportabile, gli si piegano anche le gambe. Ansante cerca di proseguire lo stesso. Poi sente una vocina stridula: Si non mi poi, posami!”. In mezzo ai mille rumori e fruscii dell’aperta campagna, pensa di aver udito male e tenta di proseguire. Alle gambe che si piegano per il peso, si aggiunge però una comprensibile tremarella. Fatti pochi passi ecco di nuovo la voce: Si non mi poi, posami!”. Ma stavolta la voce è più chiara e sembra provenire proprio da dietro le sue spalle. Altri piccoli passi ancora e la voce diventa un urlo rabbioso: Si non mi poi, posami!!!. A questo punto non ci pensa due volte. Libera l’otre e lo fa rotolare per la scarpata. Come se fosse metallico, l’otre rimbalza sui sassi emettendo gemiti e mugolii e liberando schegge e scintille che illuminano la notte, quasi come piccoli fuochi d’artificio.  Gambe in spalla, senza mai girarsi, risale rapidamente la scarpata fino ad uscire sulla curva dell’Ambesa e mettersi a correre trafelato fino a casa. Lo vedono arrivare con gli occhi sbarrati ed un pallore cadaverico. Non riesce a spiccicare parola. Si mette subito a letto. Dormirà due giorni di seguito. I familiari preoccupati chiameranno anche il medico. Dopo di allora cambierà anche il carattere, diventando ombroso e taciturno. Racconterà l’episodio molti mesi dopo.

Mercoledì 1 Settembre 1943: anche per i tedeschi è tempo di migrare – Da qualche settimana era nell’aria lo sbarco imminente degli angloamericani in Calabria. Nella notte del 25 agosto e nelle due notti successive sbarcano, in gran segreto, alcune pattuglie di incursori inglesi nella spiaggia di Bova Marina. In tutto non più di un’ottantina di uomini. Il loro compito è verificare i luoghi e stabilire in quale punto della costa ci fossero le condizioni ottimali per lo sbarco in grande stile. Saranno proprio questi uomini ad escludere lo sbarco a Gioia Tauro (operazione denominata Buttress) per il fondale troppo basso che avrebbe intralciato, all’arrivo, le motozattere cariche di soldati ed armamenti. L’indicazione sarà tra Gallico e Pentimele. La presenza di questi incursori non sempre passa inosservata. Saranno impegnati in qualche scaramuccia sia con i tedeschi che con i paracadutisti della Nembo. Ma il loro compito non è combattere, al massimo qualche atto di sabotaggio come tagliare i fili del telegrafo, cosa che manda su tutte le furie i comandi tedeschi. Il 25 agosto, proprio con l’accusa di aver tagliato i fili del telegrafo, viene fucilato, legato ad un ulivo secolare, l’armaiolo taurianovese Cipriano Scarfò, padre di sei figli. A nulla servirà la supplica della moglie e dei figli, accorsi all’accampamento tedesco, per pregare il colonnello Ulich. Non solo non saranno ricevuti da nessuno, ma addirittura saranno ricacciati all’indietro da brusche sentinelle. Dopo poco più di un’ora si compie la brutale fucilazione.

Nella notte tra 31 agosto ed il primo settembre giunge l’ordine del Comando tedesco per prepararsi alla ritirata: messaggio in codice Feuerbrunst  “il fuoco brucia”. Le truppe tedesche, che erano dispiegate sulle montagne tra S. Eufemia e Sinopoli, discendono verso la pianura e si ricongiungono al grosso della 29° Panzergrenadier Division che occupava gli uliveti della contrade di Taurianova, Cittanova e Rizziconi. Quando alle 11 arriveranno i cacciabombardieri alleati, proprio per colpire quelle truppe dislocate sulle alture, non c’è più nemmeno l’ombra di un tedesco. La via della ritirata è tracciata da colonne di fumo e macerie per le devastazioni che i soldati germanici si lasciano alle spalle, minando strade e ponti. Ma gli aerei alleati bombardano lo stesso. L’abitato di Sinopoli viene colpito in pieno. Quel giorno, i morti a Sinopoli saranno trentuno ed interi quartieri saranno distrutti. Non ci sono rifugi a Sinopoli. Chi può arrivarci, cerca riparo nella galleria delle littorine.

La ritirata dei tedeschi è “strategica”. Avverrà lungo l’asse Laureana – Nicastro. Mentre si aspettavano lo sbarco alleato a Gioia Tauro, dalle alture avevano visto invece il grosso della flotta alleata navigare verso nord. Il pericolo era micidiale. Se gli angloamericani fossero sbarcati oltre la Calabria, i tedeschi sarebbero rimasti imbottigliati nella punta dello Stivale. Il loro destino era segnato, se non riuscivano a sfuggire a quella morsa. Gli ordini, telegrafati dal Comando, disponevano di evitare scontri diretti con gli eserciti alleati, rendere difficoltosa l’avanzata distruggendo le vie di comunicazione e soprattutto facendo saltare in aria tutti i ponti. In quei giorni furono distrutti in Calabria 54 ponti, quasi tutti in provincia di Reggio, poi la ritirata si fece più celere e l’alto catanzarese e il cosentino furono risparmiati dalla furia dinamitarda tedesca. Salterà in aria il ponte sullo Sciarapòtamo a Cinquefrondi, ma anche il ponte sul Petrace a Gioia Tauro. Per i treni provenienti da nord il capolinea non sarà più Reggio Calabria, bensì Gioia Tauro.

I paesi della nostra provincia erano spopolati, la gente si era rifugiata sulle montagne o in collina. Le scuole erano chiuse dalla fine di Aprile. A Cinquefrondi anche le botteghe artigiane erano chiuse o semisederte. Durante il giorno le donne rimanevano nei casolari di campagna con i bambini, gli uomini continuavano ad andare nei campi. Si muovevano poco dopo l’alba, passavano prima dalle proprie case, temporaneamente abbandonate, per controllare se non ci fossero stati furti durante la notte. Gli atti di sciacallaggio erano frequenti. Rientravano nel casolare all’imbrunire, non senza aver fatto prima un ulteriore rapido controllo alle propria casa in paese. Il giovanissimo Peppe, quasi sempre, seguiva il padre, aiutandolo nel lavoro dei campi, nelle terre di Santo Nicola o in quelle vicino al mulino. La madre Mariangela era morta giovanissima, a causa di una tragica fatalità. Lui aveva solo sei anni, quando, all’inizio degli anni Trenta, per una puntura intramuscolo, rimase orfano di madre. Non c’erano allora le siringhe usa e getta. La siringa di vetro con l’ago e lo stantuffo veniva immersa in acqua e fatta bollire in un piccolo recipiente metallico. Comunque alla fine, chi praticava la puntura, quasi mai personale sanitario, ricomponeva i tre pezzi della siringa tenendoli in mano ed inquinandoli quasi inesorabilmente. Quando si erano rifugiati nel casolare di Prunìa, suo padre si era risposato da qualche anno. La seconda moglie, la Zi’ Catina, era una donna amorevole ed affettuosa, instancabile lavoratrice. Era un’ Amato, apparteneva alla sterminata famiglia dei Ddeucci.

Michele era il secondogenito di una famiglia decorosamente umile. Il padre era un contadino, la madre invece faceva la sarta. I suoi genitori si davano del Voi ed anche i figli si rivolgevano a loro usando il voi. Poteva sembrare un approccio freddo e distante, ma evocava invece un senso di profondo rispetto reciproco. E’ vero che il fascismo imponeva l’uso del voi, ma nella famiglia di Michele questa tradizione era nata ben prima di Mussolini. La loro casa di Santa Maria, era sempre piena di giovani donne, appassionate apprendiste che affollavano una delle poche stanze – quella adibita a sartoria – che costituivano la sua abitazione. Era la stanza più grande con balcone sulla via Calatafimi e vi si accedeva salendo una vetusta scala di legno e sollevando un cigolante catarratto. Le sartorie femminili erano tutt’altra cosa rispetto a quelle maschili. A casa sua, la madre e le sue apprendiste, le discipule, parlavano quasi sempre di cose di chiesa e quasi tutte le sere dicevano il rosario prima di tornare a casa.

Nelle sartorie maschili la musica era ben altra! E Michele lo sapeva bene. Anche lui era un discipulo. Il suo mastro era di sinistra e l’unico catechismo che si insegnava in quella bottega era quello antifascista.

Angelo, Il fratello maggiore di Michele, era già partito in guerra da qualche anno, ma si trovava ancora in Italia. In quell’estate del ’43, Michele, come abbiamo visto, era sfollato a Prunìa, con la sua famiglia e quella del suo cugino Peppe. La mattina andava a bottega, anche se c’era poco da fare in quei giorni tristi, ma la sera al tramonto si ritrovava con suo cugino e passavano quell’oretta prima di cena a raccontarsi le prime cotte giovanili ed a fumare di nascosto nella selva dei castagneti.

Ma non fumavano sigarette, non potevano certamente permetterselo con quello che costavano al mercato nero. Si trattava piuttosto di fumare in una rudimentale pipa. Una mini pipa artigianale. Si raccoglieva un guscio di ghianda, scegliendolo tra i più grandi, poi con la punta del coltello si ricavava un foro di circa mezzo centimetro dove  si infilava una cannuccia cava, scelta le più piccole canne che abbondavano in riva al fiume. E il tabacco? Niente! Quelli erano i tempi dei surrogati. Si frantumavano foglie secche di quercia o di castagno dentro il guscio di ghianda, si accendevano, si tirava nella cannuccia e voilà il fumo è servito. Il sapore acre e pungente, che bruciava la lingua, non scoraggiava i due adolescenti, che ogni sera si ritrovavano nel castagneto a fumare più per sentirsi finalmente adulti che per reale vizio.

Giovedì 2 Settembre 1943: Acthung! Banditi a Prunìa! – La mattina era iniziata proprio male. La costa tra Palmi e Nicotera era bersagliata dagli aerei alleati, i bombardamenti si spingevano fino alle soglie di Cinquefrondi.  Le mura del casolare di Prunìa tremavano ad ogni boato. Anche quel giorno segnerà l’ennesima strage. A San Fili di Melicucco almeno 12 cittadini perderanno la vita e probabilmente anche diversi soldati tedeschi che erano accampati nelle vicinanze. Comunque gli adulti delle due famiglie sfollate, fatta colazione con la solita panata e caffè d’orzo, partirono lo stesso per il lavoro nei campi e per il consueto controllo delle proprie case in paese. I furti si susseguivano quotidianamente e questa situazione angosciava tutti, anche se gli oggetti da rubare erano ben poca cosa ed avevano più che altro un valore affettivo. Così di primo mattino i genitori di Peppe e Michele presero la solita mulattiera, ma si ritenne più prudente lasciare i ragazzi a Prunìa. E quello fu un grave errore.

Dal poggio di Prunìa si godeva un bel panorama. Seguendo il vasto letto della fiumara, in estate ridotta a poco più di un rigagnolo, la vista giungeva fino alle montagne di Monte Poro ed al mare di fronte a Nicotera. Si vedeva anche qualche tornante della strada per Anoia e nelle giornate terse si potevano scorgere i dintorni di Laureana. E quella mattina i due ragazzi  si facevano compagnia proprio nel pezzo di terra che più sporgeva verso il fiume. Bisognava far passare quel tempo inoperoso, almeno finchè non si sarebbe fatto mezzogiorno. Almeno si metteva qualcosa sotto i denti, anche se era sempre la solita minestra: pasta e patate. E poi legumi e verdura raccolta nei campi, ed erbe che con la fame avevano imparato a riconoscere come commestibili. In paese dicevano che i tedeschi incominciavano a ritirarsi, così finalmente quella vita raminga sarebbe finita e sarebbero potuti rientrare definitivamente a casa e dormire almeno in un letto decente e non in quegli scomodi pagliericci. Ma non era solo quello; avevano nostalgia soprattutto delle feste e delle occasioni di socialità paesana che in quel 1943 erano state cancellate dai venti di guerra. Con la speranza del ritorno alla vita civile, scrutavano le strade lontane, immaginandole riempirsi di carri armati e truppe tedesche in ritirata.

Sarà stato un caso, ma il desiderio sembrò d’un tratto materializzarsi: sulla strada per Anoia ecco comparire quella che sembrava una colonna tedesca che procedeva verso nord. Si abbracciarono quasi automaticamente e si misero ad urlare di gioia. Michele accennò anche a qualche passo di danza, tanta era l’euforia. “S’indi vannu, s’indi vannu, li tedeschi s’indi vannu” prese ad urlare Peppe correndo verso l’aia del casolare. Prese a braccetto la zi’ Catina e la costrinse ad un paio di giravolte a mò di tarantella. Poi tornò verso Michele che intanto si godeva quella tanto agognata ritirata. Non stavano più nella pelle. E fu a quel punto che ad uno dei due venne l’idea, anzi l’ideona! Non si sa chi fece la proposta, ma tutti e due la misero in pratica, baldanzosi e incoscienti. A Cinquefrondi negli ultimi mesi il fascismo era rimasto roba da ricchi e notabili. Anche quel poco consenso coatto si era sfilacciato via via che le notizie dal vicino fronte siciliano annunciavano una disfatta per le truppe dell’Asse. Non c’erano state manifestazioni eclatanti, né contestazioni virulente, anche perché i baldanzosi fascisti del giorno prima, sembravano essersi dileguati. Si sentiva in maniera prepotente ed ineluttabile che un’era si stava definitivamente chiudendo, anche se non si riusciva a capire cosa l’avrebbe sostituita.

L’idea che ai due ragazzi era sembrata geniale, era certamente coreografica e molto, molto imprudente. Bisognava salutare la ritirata dei tedeschi sventolando la rossa bandiera! Da Prunìa un gesto che avrebbe fatto parlare per anni artigiani ed apprendisti di tutto il paese. Ma non avevano bandiere rosse a portata di mano. Lo sapevano tutti, anche quei ragazzi, che, diversi anni prima, le bandiere rosse erano state avvolte in vecchie lenzuola, non più rattoppabili, e seppellite in una sorta di giardino privato alle spalle di Piazza Castello. Ed ecco l’idea: sventoliamo la tovaglia da tavola a quadretti rossi, appesa ad una canna. In realtà la tovaglia in questione aveva da tempo perso il suo colore originale. Si presentava, dopo tante vucate, di un rosa pallido stinto, forse più adatta ad un gay pride piuttosto che ad un vessillo sovversivo. Ma tant’è. Presa la tovaglia a quadretti ed annodatala alla canna, si misero a sventolarla a più non posso, accompagnando il gesto con ululati di gioia. Guardavano la lontana colonna tedesca che si inerpicava per Anoia, ma non si accorsero che sul greto del fiume, a poca distanza da loro una ventina di soldati tedeschi si stavano avvicinando, in fila indiana, ai pilastri del ponte sul fiume Sciarapòtamo. Probabilmente si apprestavano a depositare le cariche di dinamite per farlo saltare. Furono le urla in tedesco a farli sobbalzare. Acthung! Acthung! Si accorsero troppo tardi di essere a portata di tiro. Quando ebbero la prontezza di buttarsi per terra, i fucili mitragliatori avevano già sparato e continuavano a sparare. Gli alberi sopra le loro teste erano quasi decapitati ed una tempesta di schegge li sfiorava incessantemente. Uno strato di fogliame, piccoli rami e pezzetti di tronco li coprirono ben presto. Era come se una gigantesca runca falciasse furiosamente gli alberi intorno a loro. Un odore, in altre circostanze piacevole, di erba appena tagliata, di legno bruciacchiato, di terra smossa aleggiava, penetrante, nell’aria. Sdraiati bocconi per terra e con le mani sulla testa, stettero immobili per un tempo interminabile, poi Peppe cominciò ad urlare. Era stato colpito ad una gamba, alla gamba destra. Michele era atterrito, non sapeva come aiutare Peppe, ma sapeva che se si fosse alzato sarebbe stato un bersaglio ideale. Sentiva un bruciore urente al braccio sinistro, si toccò e ritrasse la mano sporca di sangue. E’ finita pensò. Fortunatamente, e miracolosamente, il fuoco cessò poco dopo. Si avvicinò strisciando a Peppe e tentò di fasciargli la gamba con quello che era rimasto della loro bandiera. Tenne un quadretto per sé e si avvolse il braccio ferito. Bruciava sempre più forte.

La mamma di Michele e la zì Catina accorsero subito sentendo i primi spari. Quando arrivarono sul posto si misero le mani tra i capelli e si gettarono sui due ragazzi, come per proteggerli. Ma i tedeschi non sparavano più. Nessuno ebbe il coraggio di sporgersi per sincerarsi se erano ancora là sotto o se ne erano andati. Peppe a terra si teneva la gamba, il sangue aveva impregnato l’improvvisata fasciatura e cominciava a macchiargli le mani che premevano sopra la ferita. Michele si era ripreso. A parte un pezzo di pelle, letteralmente volata dall’avambraccio sinistro, era tutto intero. La zì Catina non si perse d’animo, e con la voce alterata da singhiozzi di pianto, disse alla mamma di Michele: “Maisthra! Voi restate con loro, io corro in paese a chiamare il medico Galluzzo!” e si partì a rotta di collo verso la mulattiera che portava all’Ambesa e quindi in paese. La mamma di Michele era terrorizzata, non sapeva cosa fare né come fronteggiare eventuali complicazioni delle ferite. Costrinse i ragazzi a continuare a stare sdraiati e lei si accovacciò accanto a loro finché non arrivò il medico. La zì Catina e il medico Galluzzo arrivarono dopo poco più di un’ora. Intanto dalle posate vicine erano giunti altri sfollati ed ora erano posizionati tutto intorno ai due feriti, sempre sdraiati per terra. Bastò uno sguardo del medico Galluzzo per farli indietreggiare e lasciare libero lo spazio vicino ai due ragazzi. Con la punta delle dita sollevò prima quella improvvisata fasciatura alla gamba di Peppe e poi ispezionò la ferita di Michele. Rivolto alle due donne disse: “Portatemi degli asciugamani puliti ed accendete il fuoco. Bisognerà far bollire molta acqua e dovremo far bollire anche un lenzuolo tagliato a strisce”. Le persone estranee si erano allontanate, ma restavano nei paraggi. Guardavano ammagati il medico Galluzzo come  fosse un angelo salvatore. Qualcuno si offrì di andare giù al fiume a prendere ancora acqua, qualcun altro tentò di improvvisarsi aiuto infermiere, qualcun altro ancora corse a Santo Nicola per avvisare i padri dei ragazzi che lavoravano nei campi. Il medico Galluzzo lavorò sui feriti per quasi due ore. La situazione di Michele era, più o meno, sotto controllo. Invece Peppe, che aveva avuto la gamba trapassata dal proiettile, perdeva ancora molto sangue. Finite quelle prime medicazioni, il medico rientrò in paese. Sarebbe tornato a Prunìa nel tardo pomeriggio, quasi in serata, soprattutto per controllare le condizioni di Peppe che destavano maggiore preoccupazione.

Venerdì 3 Settembre 1943, sbarcano gli angloamericani – Preceduti da un martellante bombardamento a tappeto, gli angloamericani erano sbarcati a Reggio. Non se ne accorse quasi nessuno. Durante l’operazione gli Alleati non incontrarono alcuna resistenza: con l’approssimarsi dello sbarco, il comandante della 10^ Armata tedesca  aveva ordinato ai reparti della Wehrmacht e della Luftwaffe, dislocati nella regione, il ripiegamento presso il centro di difesa predisposto nella zona compresa tra Salerno e Napoli e il trasferimento degli aerei negli altri aeroporti della Corsica e di Foggia.  In effetti, di parte italiana, soltanto alle 07.45 del 3 settembre il Comando della 7^ Armata fu in grado di comporre un quadro seppure parziale della situazione ed a trasmetterlo allo Stato Maggiore più di un’ora dopo con il seguente telespresso: “Ore 07.15 del 3 settembre: dopo violento bombardamento iniziato ore 04.00, numerosi mezzi sbarco hanno approdato at Gallico Marina nord Reggio…” La risposta tedesca allo sbarco sarà una timida incursione aerea addirittura dopo le 11. Intanto la notte a Prunìa era trascorsa relativamente tranquilla. Ai due ragazzi feriti era stato ceduto il posto sul palmento, ritenuto più comodo, non solo per loro, ma anche per il medico Galluzzo che sarebbe ritornato quella mattina, ed avrebbe più agevolmente potuto cambiare le medicazioni stando in piedi e non accovacciato come il giorno prima. I grandi non erano andati a lavorare. Volevano aspettare l’arrivo del medico per avere notizie sulle condizioni dei figli. I ragazzi, soprattutto Peppe, avevano sofferto in silenzio per tutta la notte, temendo più delle ferite, il sonoro cazziatone che inesorabilmente li attendeva per il gesto sciagurato dello sventolìo di quella stinta tovaglia da tavola che solo la fervida immaginazione di un adolescente poteva scambiare per una bandiera rossa. Prima o poi il cazziatone sarebbe arrivato. Non appena si sarebbero calmate le acque. Invece non arrivò mai o almeno non arrivò nei modi che i ragazzi temevano. La mitezza dei genitori, il profondo sollievo per lo scampato pericolo, il susseguirsi di eventi nuovi ed imprevedibili avrebbero mitigato la ragionevole incazzatura, che con il passare dei giorni sbolliva lentamente negli umori delle loro famiglie.

Quella mattina del 3 settembre cominciava a fare giorno. La luce filtrava abbondante sia dai pertugi delle due finestre che addirittura dal buco della vecchia serratura della porta. Si sentivano cupi rimbombi lontani, ma le dolci melodie della campagna che si risveglia, avevano il sopravvento. Dopo l’Apocalisse del giorno prima , il dolce stormire delle foglie, il cinguettìo degli uccelli, il parlarizzo sottovoce dei grandi, erano una nenia ipnotica e rilassante. Ma questo senso di pace e serenità non era destinato a durare. Erano appena passate le sei ed una serie di forti boati a ripetizione fecero sobbalzare tutti gli occupanti del casolare. Il ponte sullo Sciarapòtamo, ad un tiro di schioppo da Prunìa, ormai non c’era più. I tedeschi, probabilmente gli stessi che avevano sparato a Peppe e Michele, lo avevano minato. Il casolare prese a tremare e quasi ad ondeggiare per le ripetute esplosioni che si susseguivano, finchè di colpo si spalancò anche la porta per lo spostamento d’aria, facendola sbattere violentemente contro un ceppo di legno che serviva da sedia. Una grandinata di schegge, pietrisco e qualche piccolo sasso si abbattè tambureggiando sul vecchio tetto di ciaramidi della casedha, che aveva appena finito di tremare per il susseguirsi delle esplosioni. Per lunghi minuti restarono tutti impietriti non sapendo dove fuggire e dove cercare scampo. Il timore che il tetto potesse essere sfondato non era peregrino, ma uscire all’aperto era forse più pericoloso. E come fare con Peppe che non riusciva certamente a camminare?  Poi il silenzio. Un silenzio innaturale. Ci vorrà un po’ di tempo, ma lentamente ritornano i rassicuranti rumori della campagna. Si riprende a respirare.

Il medico Galluzzo arrivò quasi a mezzogiorno e si chiuse nella casedha con due dei genitori dei ragazzi. Gli altri restarono in trepidante attesa nell’aia, sotto la pergola. La pentola aveva bollito e ribollito le nuove bende. Peppe aveva ancora qualche linea di febbre, ma fortunatamente non sanguinava più. Michele, grazie all’unguento che il medico aveva portato personalmente il pomeriggio precedente, non aveva più quel bruciore insopportabile. Comunque il cambio delle bende fu molto doloroso per tutti e due. Peppe riprese leggermente a sanguinare. Poca cosa rispetto ai fiotti del giorno prima.

Dovranno aspettare altri due giorni nel rifugio di Prunìa e nelle sue ormai insopportabili scomodità, prima di rientrare in paese, nelle loro case.

Michele Tropeano e Peppe Iemma

I tedeschi intanto se ne erano veramente andati. Avevano abbandonato l’altopiano della Kabedha e si erano portati via tutto o quasi. Infatti quando qualcuno si affrettò a rovistare tra i rimasugli dell’accampamento germanico ci rimise qualche dito per la presenza di qualche bomba a mano abbandonata inesplosa.

 

 

 

I due ragazzi si ripresero presto, sotto lo sguardo vigile del medico Galluzzo. Dopo qualche anno arrivò la cartolina precetto. Ma ormai la guerra era finita, fare il militare sarebbe stata una passeggiata di salute.

Michele fu chiamato in aeronautica, Peppe invece nella fanteria, di stanza a Modena. Addirittura, durante il referendum per la Repubblica, fu di guardia ai seggi in quella città. Le elezioni furono per lui una novità assoluta ed inebriante. Poi tornarono in paese prima Peppe e poi Michele.

Nel 1955 Michele emigrerà in Australia ed aprirà un salone da barba a Sidney, si sposerà con Anita, anch’essa italo-australiana, che però non sapeva una parola di italiano. Avranno tre figli, Marina, Frank e Lisa, nessuno di loro imparerà l’italiano.

Peppe si trasferirà a Catanzaro con la moglie Maria ed i figli, ma ritornerà definitivamente a Cinquefrondi a fine 1968 dove, per diversi anni, aprirà una stoccheria nel centro del paese. I due ragazzi di quell’estate del ’43 non sono più tra noi.

Michele è morto a Sidney, mentre Peppe è venuto a mancare di recente a Cinquefrondi. I quattro figli, Tita, Angela, Franco ed Ermanna, che gli sono rimasti vicini fino all’ultimo, rammentano come, anche se di età avanzata e tuttavia lucidissimo, amasse raccontare spesso l’episodio del suo ferimento. E soprattutto ricordando lo spirito di abnegazione e l’impegno quasi missionario del medico Galluzzo, ‘u casceri, com’era soprannominato, per appartenenza familiare, nel volgo contadino. Questo ricordo e questa gratitudine per il medico l’aveva rinnovata anche pochi giorni prima che la morte lo portasse via.

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