Questa notizia è stata letta 534 volte

Nuova puntata, la ventinovesima, del nostro piccolo viaggio nel dialetto cincrundiso, alla ricerca di quelle parole che sono scompase del tutto o quasi dalle nostre conversazioni quotidiane. Come sempre Mimì Giordano, appassionato cultore dei piccoli segreti della nostra lingua madre, ci accompagna alla scoperta o riscoperta di termini ed espressioni che pensavamo dimenticati. Buona lettura a tutti

 

di Mimì Giordano

 

Patannòstra: anzitutto la corona che serve per recitare il Rosario. Poi, pasta a forma di tubicino, consumatissima sulle tavole delle famiglie dove la suriaca era regina e con cui si sposava benissimo. Vi era la variante più piccola ed erano ‘i patannostredhi. 

Patrastru: patrigno

Patùti: sofferenze, patimenti

Paucciana: donna che si dedica più alla preghiera e alla Chiesa che non alla propria casa. Viene usato con intenti non proprio apprezzativi, come sinonimo di bigotta

Pedagrusu: sofferente di gotta, in dialetto pedagra, malattia che si rivela con l’eccessiva presenza di acido urico nel sangue e che produce gonfiore e dolore ai piedi.

Pedatozzu o pedatozzulu: rumore leggero dei passi, calpestio a volte furtivo

Pedamenti. fondamenta

Pèju: peggio. Tipica espressione dialettale Ddeu e no’ pèju, vale a dire Ringrazio Dio, perchè poteva andare peggio”

Pezza: straccio, strofinaccio di scarsa qualità e stato, ma anche moneta. Da questi termini veniva fuori l’espressione Jìri ‘o spitali pe’ pezzi, vale a dire andare per pezze e monete dove c’è gente bisognosa e in difficoltà che non può dare nulla. Insomma, fare una cosa mortificante

Pezzuduru: era il gelato duro o la cassata che veniva offerta agli invitati dei ricevimenti matrimoniali che si tenevano fino a circa metà degli anni ’80. Le cerimonie si svolgevano la sera, a base, fra l’altro, di  pezzoduro alla nocciola, al cioccolato, alla gianduja, pastetti alla mandorla, pasticcini alla crema, torta, spumante e con le orchestrine locali ad accompagnare nel ballo sposi, parenti ed invitati.

Picciusu: capriccioso, piagnucoloso. Era ed è ancora un termine che si attribuisce alla particolare condizione momentanea di un lattante, di un infante.

Piciùni: colomba, piccione. Si usava volgarmente anche per definire ed indicare l’organo genitale femminile; in senso lato e traslato per definire – sempre volgarmente, ma non offensivamente- una bella donna.

Pidha: terreno melmoso, argilloso

Piditara: malattia delle piante a causa di un insetto puzzolente (la cimice) di colore verde, che vi si appoggiava

Pìgghjapìgghja: parapiglia, disordine, folla ammassata

Pignata: pentola di terracotta con i manici che sembravano due orecchie. Cincrundi fu il paese di un maestro pignataro, mastru Santu Ieraci, un personaggio caratteristico, laborioso e originale. Le sue pignate avevano una garanzia di durata non scritta di decine e decine di anni. In quelle pignate ‘na suriaca paisana‘na suriaca janca cotte al caminetto non erano e non sono soltanto un primo piatto, ma pura poesia. Pertanto consiglio ai tradizionalisti della tavola: suriaca, cu’ ‘nu pocu di pipi stricatu, cundùta cu’ ògghju bonu e ‘nu biccheri di vinu.

Pìgulu: piagnisteo, ma anche, per i superstiziosi, malagùriu perché era il verso del gufo (‘a pìgula) 

Pilàtu: scottato

Pilu: pelo, soprattutto di donna. Senza tempo e sempre veritiero il proverbio: centu voi ligàti a ‘nu carru tirari non ponnu quantu poti pilu di fimmana, che possiamo trdurre così: cento buoi legati a un carro non hanno la stessa forza del fascino di una donna.. Potrà sembrare paradossale, iperbolica, ma nella storia dell’umanità è stato, è e sarà sempre così, almeno fino a quando il cosiddetto “transgender” ovverosia né genere maschile,né femminile o tutti e due assieme nella medesima persona, non sovvertirà la millenaria verità. E allora avverrà che lu mundu suttasupa si sdarrùpa e spidàndu la leggi divina quandu lu suli arrivisci no’ la chîamàmu cchîù matina.

 

Non è possibile copiare il contenuto di questa pagina.