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Fine d’anno col botto per il nostro piccolo sito, grazie al racconto di un fatto incredibile e realmente accaduto, ma di cui quasi nessuno a Cinquefrondi ha mai saputo nulla, me compreso che pure qualcosa della storia cittadina penso di conoscere.
Dunque, in un lontano giorno di 85 anni fa alcuni cincrundisi, probabilmente anche un pò fuori di testa, pensarono addirittura di organizzare un attentato per uccidere nientemeno che il capo del governo, cioè il Duce, Benito Mussolini. Erano senza soldi, senza mezzi di trasporto, senza armi, ma ciò non bastò a dissuaderli; e non si posero nemmeno il problema di dover attentare alla vita del Duce nel bel mezzo di una folla di migliaia di militanti in festa per il loro capopopolo.
Sembra una favoletta di fine anno, invece è tutto vero. L’inziativa fu di un gruppetto di sette anarchici cinquefrondesi che si ritrovarono in una cantina di Santa Maria e decisero che era l’ora di togliere di mezzo il tiranno Mussolini, sparandogli addosso durante una sua visita programmata a Reggio Calabria.
Ogni particolare fu studiato, ogni dettaglio dell’attentato venne messo a punto con cura, fu anche deciso che il commando sarebbe stato composto da quattro persone. Tutto era pronto dunque per dare il colpo di gong alla rivoluzione. Ma poi, al momento buono, le cose andarono per un altro verso e quello che sarebbe dovuto diventare un evento storico, appunto l’uccisione del Duce, si trasformò in un fiasco colossale e per certi versi comico, che fece vergognare gli stessi che l’avevano progettato. Non a caso, probabilmente, dell’evento non si parlò mai in pubblico e pochssimi ne vennero a conoscenza, quasi solo nel giro degli anarchici cinquefrondesi: i protagonisti dell’episodio temevano forse più la feroce derisione dei paesani che l’intervento delle autorità di polizia.
La vicenda del tentato omicidio di Mussolini da parte dei quattro cincrundisi e quanto accadde in quei giorni concitati del marzo 1939 sono stati minuziosamente ricostruiti da Francesco Tropeano, medico cardiologo e storico per passione, nonchè studioso e cacciatore di vecchi documenti sulla storia non troppo lontana di Cinquefrondi. Non c’è altro da aggiungere. Buona lettura
di Francesco Tropeano
Benito Mussolini e i 4 anarchici di Santa Maria
Era all’imbrunire di un tardo pomeriggio invernale dei primissimi anni 70, passeggiavo su e giù, davanti alla torretta di Cinquefrondi, in attesa di veder giungere Angelo Crea, con il quale avevamo appuntamento. Angelo era un giovane anarchico di Campo Calabro e sarebbe venuto a trovarmi, quella sera, per avere notizie sugli anarchici ed in generale sui movimenti antagonisti nella Piana. Alcuni compagni di Cittanova mi avevano preannunciato il suo arrivo la domenica precedente, mentre eravamo a Polistena, “avanzi a la vara”, all’ennesima manifestazione contro la guerra nel Vietnam, tra musiche rivoluzionarie e slogan, amplificati dalle trombe sul tettuccio della 500 gialla di Giovanni Russo, preoccupato di tenerla spesso col motore acceso per non far consumare la batteria. La manifestazione era indetta dal GPIC (Gruppo Politico di Iniziativa Culturale) un organismo con sede a Polistena, che avevamo fondato da circa un anno, per creare un ambito di dibattito e di confronto fra le varie anime dell’area post-sessantottina della nostra zona. Ero immerso proprio nel ricordo di quella manifestazione, quando mi vedo venire incontro un giovane barbuto, di altezza media, molto robusto, quasi quadrato. Capisco perché lo chiamano il “bonzo”, pensai tra me e me.
Ci salutammo cordialmente ed iniziammo a chiacchierare, passeggiando sul corso. Gli spiegai innanzitutto la situazione di Cinquefrondi dove io, ed una decina di ragazzi, quasi tutti minorenni, condividevamo un riferimento generico alla sinistra extraparlamentare. Certo eravamo abbonati anche ad Umanità Nova, il periodico ufficiale degli anarchici italiani, ma soprattutto perché ce lo spedivano quasi gratis. Rimase un po’ deluso quando gli dissi che, della famosa Federazione Libertaria di Cinquefrondi, che aveva partecipato, distinguendosi, al Congresso della Federazione Anarchica Italiana nel 1946 a Carrara, erano rimasti solo in due. Precisamente Mastr’Angelo Ferraro e Michele Galluzzo. E loro due rappresentavano anche l’eterna spaccatura tra anarchici individualisti e collettivisti. Mastr’Angelo era un collettivista, politicamente si rapportava con Peppino Scicchitano, Peppino Papallo e quell’area che aveva costituito il PSIUP.
Michele Galluzzo, il povero, come amava definirsi per distinguersi dal cugino medico e omonimo, era fieramente individualista. Pasqualino Creazzo lo aveva ritratto in un mirabile dipinto ad olio. Sempre con quel suo nastrino nero a mò di cravatta. Negli anni 70 non aveva relazioni politiche, pur essendo stato in passato un vero e proprio punto di riferimento, almeno regionale, per la causa anarchica. Quando incrociava per strada il nostro gruppetto di giovani, borbottava il suo motto preferito : “Libero il pensiero, verso l’anarchia va la storia!” E tirava dritto.
Mastr’Angelo era famoso perché suonava il serracchio nel complesso musicale Sestetto Gioventù che diventerà “Gli Intramontabili”, complesso che segnerà un’epoca della storia cinquefrondese. Usando un archetto ed una vera e propria sega riusciva ad imitare uno stridulo violino, che dava alle melodie un tocco originale, quasi surreale . Ma mastr’Angelo gestiva anche una cantina in via Marsala, all’apice del Triangolo Maledetto di Santa Maria. Infatti nella triangolazione con altre due cantine, quella di Gènia e quella di Mindalo, buona parte della popolazione, soprattutto agricola, maschile veniva inghiottita per ore, soprattutto nei sabati invernali. E con il Bonzo, ovviamente, nella cantina di Mastr’Angelo ci recammo.
Sotto un ramo d’arancio ed una lampadina giallastra, posti in alto sullo stipite esterno destro, si apriva l’ingresso della cantina. Era un basso angusto; appena entrati ci investì un odore penetrante, acido, tipico delle cantine, di vecchie botti , di vino e di “fezza”, mischiato col fumo di un vecchio braciere posto in un angolo. Ci sedemmo all’unico tavolo libero, su delle panche di legno grezzo, come il tavolo, annerito dal fumo e dal tempo. Feci le dovute presentazioni e dopo che mastr’Angelo ebbe servito alcuni clienti si sedette con noi. Intanto ci aveva portato due gazzose. Avevamo infatti cortesemente rifiutato il canonico “tre quarti e ‘na gazzosa” per ovvi motivi. Così cominciò a raccontare della sua gioventù e delle sue esperienze politiche, quando gli anarchici erano tanti e cospiravano per una società di liberi e uguali. Ci parlò dell’emigrazione, del dopoguerra e del periodo fascista. Ci raccontò qualche aneddoto come quello del giovane Celestino Pronestì che tutti i santi pomeriggi, alle due, passava e ripassava, rombando con una vecchia moto sotto la casa del podestà Della Scala, il quale abitava proprio lì, quasi di fronte alla cantina. La missione del centauro Celestino era esclusivamente una: disturbare la siesta pomeridiana del Podestà girando e rombando con la moto e se ne tornava in via Milazzo solo quando Della Scala usciva, inveendo, sul balcone.
Ma io mi aspettavo qualcosa di più. Si sussurrava in paese di un attentato fallito a Mussolini e finito in burletta. Ma mastr’Angelo non ne parlava. Allora cercai di insistere finchè finalmente cedette ed iniziò a raccontare prima esitante, poi sempre più spedito. Il Bonzo era sbalordito e affascinato. Seguiva il racconto di mastr’Angelo Ferraro senza perdere una parola. Io mi atteggiavo a chi la sapeva lunga, ma in effetti non ne sapevo niente, se non qualche accenno, farcito da ammiccamenti e sorrisetti di scherno, che avevo colto in qualche bottega artigiana di stretta osservanza comunista. Era possibile che in un paesino come il nostro si potesse soltanto pensare di preparare un attentato a Mussolini? Eppure ciò avvenne. La data era segnata sul calendario. Il 31 Marzo 1939 il Duce sarebbe stato a Reggio Calabria, un’occasione unica!
Il racconto di Mastr’Angelo Ferraro si dilungò per più di un’ora, anche perché ogni tanto veniva chiamato ai tavoli dai clienti, per portare ulteriori beveraggi. Si era fatto tardi, il Bonzo doveva fare un bel pezzo di strada per tornare a casa, ma si vedeva che la serata, la location e quei racconti gli erano piaciuti.
Io rivedrò il Bonzo solo un altro paio di volte negli anni immediatamente successivi, in occasione di manifestazioni o riunioni politiche. Nella seconda metà degli anni 70 sarò impegnato con gli studi universitari nel nord e ne perderò le tracce. Ho da poco appurato che è morto nel 2017 presso l’Ospedale di Polistena. Così sono riemersi, in modo tumultuoso e nitido i ricordi di quel periodo. Negli ultimi anni è stato più volte ricordato con affetto sia a Reggio che nella sua Campo Calabro, dove gestiva un’attività di ristorazione.
Correva l’anno 1939
Il 1939 fu un anno cruciale e funesto. Il 19 gennaio viene approvata la legge che istituisce la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, con la cancellazione definitiva della Camera dei Deputati. Il primo settembre scoppierà la seconda guerra mondiale. Anche il clima ne risente. A Roma il freddo invernale si prolunga fino a primavera inoltrata, tanto che addirittura domenica 23 aprile Benito e Claretta, in gita sul motoscafo, sono costretti a tornare indietro per il freddo e il forte vento. Il 1939 si chiuderà con la più grande nevicata, su Roma, di tutto il secolo. La politica però non si ferma e marcia spedita verso il disastro bellico.
Morto un Papa se ne fa un altro. Il Papa Achille Ratti, Pio XI, era diventato ingombrante per l’asse Mussolini – Hitler. Ed ingombrante è già un aggettivo benevolo. Appena due mesi prima, Il 14 Dicembre 1938, Ciano aveva così annotato nei suoi diari: “ Il Duce ha uno scatto d’ira contro il Papa, del quale spera la morte a breve scadenza. Minaccia di “grattare le corde sensibili” e far tornare a rivivere quell’Italia ghibellina che mai è morta”. La rabbia di Mussolini era dettata dai comportamenti del Papa negli ultimi anni, apertamente contro il razzismo. Infatti il Papa, durante la visita di Hitler a Roma il 3 maggio 1938, si ritira a Castelgandolfo, ma prima di partire fa spegnere le luci in Vaticano, fermare le tapparelle alle finestre del Palazzo Apostolico, chiudere i Musei Vaticani, sbarrare la via d’accesso a San Pietro. Stava inoltre preparando una durissima enciclica contro il razzismo e il nazionalismo, dove pare si spingesse addirittura alla scomunica verso Hitler e Mussolini. Per il decennale dei Patti Lateranensi, l’undici febbraio 1939, aveva convocato tutti i vescovi ed aveva approntato un discorso durissimo contro le dittature di Italia e Germania. Ma il 10 febbraio, proprio alla vigilia, il Papa muore, ufficialmente per un infarto. Una morte provvidenziale. Scompare la bozza di enciclica antirazzista, Humani generis unitas, ed il tanto temuto discorso, di cui saranno pubblicati alcuni stralci (probabilmente la parte dicibile) sotto il pontificato di Giovanni XXIII nel 1959. Dice Ciano, a proposito della morte del Papa: «La notizia lascia del tutto indifferente il Duce». Ma due giorni dopo lo stesso Galeazzo Ciano rivela a Mussolini che in alcuni ambienti americani comincia a circolare la voce che il Camerlengo ( futuro Pio XII) abbia in mano un documento scritto del Papa. Il Duce vuole che Pignatti (ambasciatore d’Italia in Vaticano) appuri la cosa e, se è vera, cerchi di aver copia dello scritto, e ciò: “…ad evitare che venga fuori un secondo memoriale Filippelli!”( colui che aveva fornito l’auto dove fu ucciso Matteotti). La morte di Pio XI assume contorni ancor più sospetti quando si scopre che, al suo capezzale di morte, nello staff medico era presente Francesco Saverio Petacci, padre di Claretta. Dall’Annuario Pontificio del 1938 risulta che Petacci era il primo dei medici chirurghi effettivi dei servizi sanitari vaticani. Non una mezza figura, dunque. Si favoleggia che in Vaticano sarebbero custodite alcune memorie del cardinale Eugene Tisserant (Gran Maestro dei Cavalieri del Santo Sepolcro come il papa Pio XI; Licio Gelli nel 1965 riuscì ad arrivare solo al grado di Commendatore di questo Ordine) in cui si rivelerebbe che papa Ratti sia stato avvelenato dal dottor Petacci. Ovviamente nessuno ha mai visto queste fantomatiche memorie di Tisserant. Certamente Claretta avrà scritto qualcosa, riguardo la morte del Pontefice, nei suoi diari. La figlia del medico del Papa non poteva ignorare un episodio così eclatante.
Nel 2012 Mauro Suttora, giornalista del Corriere della Sera, osserva : ” Si sperava che i diari di Claretta Petacci, sicuramente autentici e desecretati dall’Archivio centrale dello Stato, settant’anni dopo la loro redazione, avrebbero gettato qualche luce in più sul mistero. Al contrario: dall’agenda 1939 qualcuno ha eliminato proprio le pagine su quei giorni di febbraio. Dopo avere controllato la copia originale, conservata negli uffici dell’Eur, abbiamo scoperto una settimana di buco: dal 5 al 12 febbraio. Dal diario sono state chiaramente sottratte una o più pagine”. Il giallo resta così sospeso. Il 15 marzo Hitler invade la Cecoslovacchia stracciando il Patto di Monaco, stipulato l’anno prima con grande soddisfazione di Mussolini, che si era illuso delle rassicurazioni tedesche ed anzi aveva menato vanto quale unico statista in grado di garantire la pace. Mussolini, benché preso di contropiede dall’invasione tedesca, è sempre favorevole a un’alleanza militare col Reich. Ciano ha invece delle riserve, perché si è reso conto che l’alleanza non sarebbe popolare in Italia.
Mercoledì 29 marzo 1939. Cinquefrondi
Ed eccoci all’ennesima riunione. Il luogo è uno scuro basso di una delle viuzze del quartiere Santa Maria. I sette anarchici sono tutti seduti, alcuni sulle sedie, altri su una brandina in un angolo buio del locale. Il padrone di casa ha portato un fiasco di vino, ma i bicchieri sono solo cinque. Toccherà arrangiarsi, ma per la prima mezzora nessuno toccherà quel fiasco. Si inizia chiacchierando del più e del meno, soprattutto gossip locali e le solite critiche ai partiti della sinistra che, aldilà di innocue schermaglie, si stanno dimostrando immobilisti e qualche volta quasi collaborazionisti con il fascismo locale.
La pattuglia anarchica, così numerosa fino a qualche decennio prima, si era andata via via assottigliando, sia per la forte emigrazione, sia per le numerose defezioni. Certo, c’era chi teneva i contatti con gli emigrati che mandavano in paese i giornali dalle lontane americhe, di fatto bollettini delle lotte che in quelle terre li vedevano protagonisti. Certo, c’erano i rapporti costanti con gli anarchici delle altre città calabresi, ma, a meno di un’azione eclatante e decisiva, il declino sembrava inarrestabile. E di un’azione eclatante e decisiva si doveva parlare quella sera. L’ordine del giorno della riunione prevedeva un solo punto ed era un luogo ed una data: Reggio Calabria venerdì 31 marzo 1939. Mancavano ormai meno di due giorni all’ora X e loro erano ancora a “ppedi di piru” . Si vedevano ormai da una settimana. All’inizio si era partiti con l’idea di un’ azione dimostrativa. Appiccare il fuoco al Palazzo dei Tribunali mentre tutti erano dall’altra parte di Reggio, ad ascoltare le parole del Duce. Un lavoretto facile facile. La proposta però, dopo alcuni interventi viene accantonata, perché considerata da alcuni poco incisiva e per la difficoltà di trasportare in loco ingombranti taniche, che certamente avrebbero dato nell’occhio. Non possedevano ovviamente né esplosivi né altro materiale adeguato allo scopo. Ma la motivazione, che affossò definitivamente la proposta di un attentato al Palazzo dei Tribunali, fu squisitamente ideologica. E la lezione partì proprio da uno degli emigrati di ritorno: “ Siamo in una tirannia. Se muore il tiranno muore pure la tirannia!”. E incominciò a leggere una lettera appassionata e sprizzante retorica rivoluzionaria. La lettera era stata inviata da Luigi Sofrà, anarchico galatrese,
detenuto al confino di Ponza e ossessionato dall’idea di attentare al duce. Uno scroscio di applausi sancì il radicale cambio di strategia.
Il giorno successivo alla prima riunione, due di loro erano partiti per Reggio. Si erano incontrati con un gruppo di anarchici reggini a cui, dopo aver manifestato i loro propositi, avevano chiesto l’appoggio logistico per la realizzazione dell’attentato. Quel mercoledì sera bisognava ancora decidere le cose più spinose. Chi avrebbe sparato a Mussolini? In quanti sarebbero partiti per Reggio? E se i compagni di Reggio non fossero riusciti a procurarsi un buon fucile, bisognava portarsi qualche arma da qui? Rischiando di essere scoperti per strada?. Con questi interrogativi nell’aria la riunione può iniziare. E qualcuno ha già sorseggiato un pò di vino. I toni del dibattito furono abbastanza pacati e lucidi. Scelta la strada dell’attentato alla vita del Duce, il resto erano solo problemi organizzativi. Parlarono solo in tre o quattro. Ogni intervento proponeva una diversa “scaletta” dell’attentato e spesso si perdeva in particolari secondari. Il tempo stringeva, non si poteva stare lì tutta la notte senza decidere un piano preciso. Alla fine vi fu la convergenza sulla proposta proprio di uno degli ex emigrati . Si sarebbero rivisti l’indomani, stesso posto, ma solamente per valutare eventuali novità dell’ultimo minuto.
Mercoledì 29 marzo 1939 , Roma – Il Duce si alza di buon’ora. Per prima cosa deve fare un telegramma di felicitazioni a Francisco Franco, il caudillo spagnolo che ha appena conquistato Madrid, dopo aver scatenato una sanguinosa guerra civile per impadronirsi del potere e liberarsi della coalizione di sinistra, che aveva la maggioranza in un Parlamento democraticamente eletto. Vergato il telegramma, si prepara per un’ importante riunione con Galeazzo Ciano. Se Hitler ha invaso la Cecoslovacchia noi non saremo da meno : si deve pianificare l’invasione dell’Albania (con relativo, misterioso, ma non troppo, trafugamento di quasi 4 tonnellate d’oro del Re albanese).
Annota quel giorno Galeazzo Ciano : “Due colloqui col Duce per prendere le decisioni circa l’Albania. Poiché egli parte per la Calabria e torna soltanto sabato prossimo, ha voluto fare il punto con precisione: 1) l’esercito, la marina e l’aviazione continuano i loro preparativi. Saremo pronti sabato; 2) Jacomoni (Francesco Jacomoni, marchese di San Savino nato a Reggio Calabria, 31 agosto 1893 e morto a Roma il 17 febbraio 1973, ministro consigliere a Tirana) deve nel frattempo svolgere la sua pressione diplomatica sul Re, segnalandone gli effetti; 3) ad un certo punto, se non avrà ceduto prima, inviare le navi nelle acque territoriali albanesi e mettere un ultimatum: o firmare il patto o assumersi le responsabilità del rifiuto; 4) se insiste sul rifiuto, sollevare le bande, pubblicare le note dichiarazioni e sbarcare; 5) occupare Tirana, riunirvi i Capi albanesi in una specie di costituente ch’io dovrei presiedere e offrire la corona al Re d’Italia. Badoglio è andato dal Duce per dichiararsi d’accordo circa l’impresa albanese: ha soltanto consigliato di mobilitare un contingente maggiore. Mobiliteremo una divisione in più e anche un battaglione di carri di assalto.” Col senno di poi sappiamo che l’invasione dell’Albania fu iniziata il 7 aprile 1939, Venerdì Santo. L’esercito albanese disponeva di soli settemila uomini validi, l’Italia ne mobilitò poco meno di centomila, facendone sbarcare circa la metà. Non c’era partita. Insieme all’Etiopia, l’Albania andò a costituire il neonato Impero italiano, e nel 1940 fu la base per il disastroso tentativo di annessione italiana della Grecia, che vide, tra le altre cose, la diserzione delle truppe albanesi.
Quindi quel 29 marzo Mussolini trascorre la mattinata tramando nuove guerre, dopo quelle africane, e complottando per l’aggressione contro il Re albanese Zog I . Ma appena passata l’una, allontana tutti. Sta per giungere Claretta. Quando lei arriva, il Duce è solo nella stanza. Ecco il racconto testuale di Claretta: “Legge al tavolo ed è buio e distante. Pensa. Gli chiedo che ha:
“Nulla. Notizie ingrate e poi questa gita in Calabria non la faccio molto volentieri. Penso a tutte le lettere che riceverò, a tutte le suppliche che mi verranno lanciate, a questo popolo senza dignità che le lancia, persino legate ai sassi, perché giungano in macchina e finiranno per spaccare i vetri. Desidero fare le visite improvvise senza preannuncio e poi non voglio più fare i discorsi. Sono nauseato dai discorsi!….Sono un po’ nervoso, sì. Vieni di là. Prendi le arance” Di là è la stanzetta attigua allo studio di Palazzo Venezia, l’alcova di Mussolini. Si appartava spesso con Claretta (e non solo). Dopo le effusioni amorose, che Claretta descrive nei particolari, prima di rivestirsi, consumava sistematicamente qualche arancia.
La sera di mercoledì 29 gennaio 1939 sale sul treno, destinazione Calabria. Arriverà a Paola la mattina, poco dopo l’alba, del 30 Marzo.
Giovedì 30 marzo 1939 – Il Duce appena arrivato a Paola, si reca a Belmonte Calabro (per onorare la tomba di Michele Bianchi, il quadrumviro calabrese che fu ministro dei Lavori Pubblici) e da qui raggiunge Cosenza ,a cui dedica tutto l’arco della mattinata, con visita alla recente moderna sede della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), dove incita i giovani avanguardisti e poi la cerimonia per l’inaugurazione delle Case Popolari nel quartiere Panebianco. Ritorna in Prefettura, dal cui balcone tiene un applauditissimo discorso ad una folla in visibilio.
Dopo il discorso, rimane in Prefettura. Ha fretta di telefonare a Claretta. Prima telefonata alle 11.10. Claretta non è a casa. La gelosia comincia a montare. Seconda telefonata ore 12.05. Anche stavolta buca! Mussolini schiuma di rabbia. Ma la giornata è ancora piena di impegni. Ritelefonerà in serata. Nel primo pomeriggio prende la “littorina” per Sibari, dove si accerta dei meravigliosi risultati dovuti alle opere di “Bonifica della Piana di Sibari”, prima infestata di acquitrini e malaria. Nell’avanzato pomeriggio, a bordo di un treno con locomotiva a vapore, con non più di tre vagoni, incomincia il percorso jonico per raggiungere Crotone e, poi , Catanzaro. E Mussolini fa in tempo a rispettare la rigorosa tabella di marcia, arrivare a Crotone per la posa della prima pietra delle “Case Popolari” e tenere un vigoroso discorso dal podio dell’arengo, che era stato costruito appositamente per l’occasione.
Prima di ripartire da Crotone richiama Claretta. Neanche ora è a casa. Risponde mamma Petacci, sono le 18 e trenta. Grande sfuriata del Duce. La mamma di Claretta è annichilita, farfuglia qualche scusa, ma Benito è un fiume in piena, non vuole sentire ragioni. Comunque ritelefonerà più tardi. Intanto era quasi sera. A Catanzaro arrivò che era buio, ma non mancò il solito bagno di folla. Finalmente verso le 21 può ritelefonare a Claretta. Stavolta la trova finalmente in casa. E’ agitatissimo ed inizia la scenata di gelosia : “ Dove siete stata ieri sera? Cosa avete fatto? E con chi? E questo Carbone e questo Rossi che hanno da spartire con voi? Che figure fa vostra sorella!? Dove siete andata? E dopo il teatro? Svergognata, non mentite!” . Ma Claretta sa come addomesticarlo, ormai lo conosce troppo bene. Tocca i tasti giusti e già il Duce, lentamente, si ammansisce. “ Sono inquieto. Non me ne importa nulla. Qui ho trovato gente bellissima. Sono contento di esserci stato. Uomini belli, alti, bruni. Donne meno belle, benché poco si possa giudicare così in fretta.” Pace fatta dunque, ora può andare a letto tranquillo. Domani sarà un’altra giornata pesantissima.
I sovversivi tra il Tirreno e lo Jonio
Cinquefrondi. La riunione stavolta è di pomeriggio inoltrato. La location sempre la stessa, nella stessa casa di Santa Maria. Non c’erano novità di rilievo. Aleggiava nell’aria una forte tensione ed in molti serpeggiava anche un po’ di paura. Si stavano imbarcando in qualcosa più grande di loro? Ma alcuni compagni più risoluti e determinati cercarono di fugare queste paure, con roboanti ed appassionate arringhe. Sarebbero partiti in quattro alla volta di Reggio. Ovviamente divisi in coppie per non dare nell’occhio. Prima in littorina, poi in treno fino alle porte della città. Qui si sarebbero incontrati con i compagni di Reggio. Avrebbero proseguito a piedi ed alla spicciolata, fin nei pressi di Piazza dell’Arengario. Nella confusione del comizio solo uno di loro, che aveva combattuto nella grande guerra ed era anche un provetto cacciatore, insieme con un compagno reggino, si sarebbe intrufolato in un caseggiato le cui finestre davano sulla piazza. Il fucile, un moschetto 1891, sarebbe già stato lì dalla sera precedente. Questo il piano; bisognava adesso individuare i quattro compagni che avrebbero compiuto l’impresa. Due si offrirono subito volontari. Seguì almeno un lungo minuto di silenzio, qualcuno accampò qualche scusa per la salute cagionevole, ma con qualche titubanza fecero un passo avanti altri due compagni. La riunione poteva dirsi conclusa. L’appuntamento per i quattro era per l’indomani all’alba. Si vede che in quel periodo c’era proprio la fila per attentare a Mussolini, almeno nella nostra provincia. Infatti sull’altro versante dell’Aspromonte, e precisamente a Gerace Superiore, un’altra riunione era in corso. Erano in cinque e non erano anarchici, ma l’ordine del giorno era lo stesso : Morte al Duce!. Ispiratore della riunione e protagonista principale era Franco Felice Napoli, un giovanissimo socialista e fervente cristiano, che diventerà famoso, qualche anno dopo, nella Roma occupata dai nazisti; infatti non solo narrerà la sua vita da combattente in un volume, “ Villa Wolkonsky” edito in Svizzera, per rifiuto categorico dei nostri editori, (e misteriosamente sparito da tutte le librerie italiane), ma rivelerà particolari indicibili sulle trattative sotterranee tra ufficiali tedeschi e servizi segreti inglesi, in piena guerra e all’insaputa di Hitler, già dalla fine del 1943.
Nella Roma occupata, del suo gruppo armato partigiano, denominato dai tedeschi Banda Napoli, farà parte il Gobbo del Quarticciolo, celebrato da Lizzani nel film del 1960, cui prese parte anche Pier Paolo Pasolini. A fine guerra, nei fatidici giorni di Dongo, Felice Napoli, nome di battaglia Franco, sarà su quelle rive del lago di Como, aggregato dal CLN nel CIC (Counter Intelligence Corps, un’agenzia di spionaggio dell’United States Army) . Missione : anticipare i partigiani e possibilmente salvare vita (!) e carte di Mussolini . Avrà per le mani solo una parte delle carte del Duce, tenute su un camion della colonna nazifascista rimasto in panne. Queste carte le consegnerà ad un giovane sacerdote, Don Giuseppe Alvarez. Negli anni successivi questo prete sarà trasferito precipitosamente in Messico, dove morirà in circostanze misteriose, a 52 anni. Con lui spariranno le carte di Mussolini.
La riunione di Gerace aveva però un piano diverso da quello di Cinquefrondi : niente moschetti, né esecuzioni drammatiche, semplicemente una bomba. Approfittando del fatto che Mussolini, il giorno dopo, avrebbe raggiunto Reggio con il treno, attraverso la linea jonica, personalmente Napoli avrebbe collocato una bomba sulle rotaie, nei pressi della galleria Bianconovo. L’indispensabile consulenza per l’esplosivo era offerta da Cesare Petrini, un confinato di origini toscane. La bomba effettivamente esploderà, ma danneggerà leggermente il solo terzo vagone, che sarà sganciato dal convoglio nella successiva stazione di Palizzi. Anche qui doveva essere un lavoretto facile facile. Anche qui andrà tutto a monte , Franco Napoli verrà arrestato e l’attentato sarà tenuto accuratamente nascosto.
Venerdì 31 marzo 1939 – Reggio Calabria L’appuntamento era direttamente sulla littorina, quella delle 5 e 35. Fuori era ancora buio. Si sedettero ai lati opposti dell’unico vagone e non spiccicarono parola. Dei quattro “volontari” che avrebbero dovuto uccidere il capo del Governo due erano da sempre residenti a Cinquefrondi e due, invece, emigrati di ritorno, ma pronti a ripartire. Dei due paesani uno si chiamava Spanò e abitava al rione Rosario, l’altro potrebbe essere stato uno dei personaggi più noti dell’anarchismo cincrundiso, figura anche di grande allegria e simpatia umana, ma evitiamo di farne il nome non avendo certezza della sua identità; degli altri due componenti dell’improbabile commando, si sa che uno era stato fino a qualche anno prima negli Usa, l’altro invece era di recente tornato dall’Argentina. Mastr’Angelo non volle mai rendere ‘ufficiale’ l’identità dei quattro attentatori, probabilmente per proteggerli da possibili conseguenze ove mai i loro nomi fossero diventati pubblici. Ferraro, sottolineò di non essere stato uno dei quattro, perchè nei giorni dell’attentato era indisposto fisicamente, ma conosceva ogni minimo dettaglio di quella sventurata iniziativa. Forse era proprio lui il quarto attentatore ?
L’età media dei quattro aspiranti omicidi era poco meno di 40 anni. Ci misero più o meno un’oretta per arrivare a Gioia Tauro. Ora bisognava andare verso la stazione più grande ed aspettare il treno per Reggio. Ma appena usciti dalla stazioncina delle littorine, si parò davanti ai loro occhi uno spettacolo molto inquietante. Tutto lo stradone era pieno di miliziani fascisti inneggianti, tutti bardati di nero e con i moschetti bene in mostra. Anche loro affollavano la stazione per andare a Reggio. I quattro di Santa Maria pensarono prudentemente di tenersi alla larga, svoltarono a sinistra verso la strada per Palmi e si eclissarono per quasi un’ora. Intanto Mussolini era partito da Catanzaro Sala alle sei del mattino, sarebbe dovuto arrivare a Reggio alle 10 in punto. Quattr’ore di treno sul binario unico della costa jonica. Giusto giusto quanto ci si impiega adesso, dopo oltre 80 anni, sul, sempre, solito binario unico della linea jonica. Non c’è che dire : ne abbiamo fatto di progressi! Il treno avrebbe effettuato pochissime fermate.
A Monasterace, tra ali di folla osannante, qualcuno scrive, con tipica prosopopea di regime, ma anche con involontaria ironia, su uno striscione «Tu non ci sei mai mancato, noi non Ti mancheremo mai». Qui gli viene donato l’omaggio tipico calabrese: «Il grano nel cesto di rami d’ulivo, le frutta succose, ed anche un tessuto di fibra di ginestra», annotano i giornali dell’epoca. Prossima fulminea fermata Locri. E qui c’è un piccolo dispiacere per Benito. La moglie di Ilario Franco, colui che aveva aperto la prima sede dei Fasci di Combattimento in tutta la Calabria, restituisce a Mussolini il gagliardetto che le donne di Fiume avevano donato al marito. Un aperto gesto di coraggioso dissenso verso il Duce che aveva tradito gli ideali rivoluzionari di Piazza San Sepolcro ed aveva lasciato il Sud nelle mani degli agrari. Mussolini inghiotte il rospo, incarta e porta a casa. Sul versante tirrenico, a Gioia Tauro, i nostri paesani erano tornati sui loro passi. Finalmente la situazione era più tranquilla. C’era ancora qualche capannello di fascisti, tuttavia la strada per la stazione era libera. Si divisero : due ripassarono davanti alla stazione delle littorine, mentre gli altri due presero la traversa a fianco dell’albergo, giungendo proprio di fronte alla stazione. Una volta dentro si mescolarono agli altri viaggiatori. Attesero il treno fino alle otto passate. Incominciava ad aleggiare il timore di fare tardi. Ma non avevano scelta : mica potevano tornare indietro con la coda tra le gambe! Quindi tutti sul treno, sperando di arrivare in tempo. Un’oretta di percorso ed arrivarono a Villa.
L’appuntamento con il compagno di Reggio era proprio lì. Scesero con studiata lentezza e si avviarono all’uscita, badando bene a tenersi distanti l’uno dall’altro. All’inizio non videro nessuno. Dopo qualche minuto sulle spine, finalmente ecco venir loro incontro il loro uomo. Si salutò solo con uno dei quattro e fece cenno di seguirlo, sempre alla spicciolata. Arrivarono in una traversa vicino alla stazione dove li aspettava un carretto con un cavallo. Salirono velocemente sul cassone guardandosi intorno e si adagiarono sul pianale, in mezzo a dei sacchi pieni di arbusti e foglie secche. Il compagno di Reggio li coprì con un telone malandato (e maleodorante).
Partirono quasi subito tra sobbalzi e brusche frenate. Dopo circa un quarto d’ora sentirono un cupo rimbombo. Era un colpo di cannone sparato dal Forte di Matiniti : annunciava l’arrivo del Duce. Erano le dieci spaccate, ma in realtà il Duce non era ancora arrivato. Il suo treno si fermerà alle 10 e 25 al primo binario della Stazione Centrale, accolto dalla banda e dai gerarchi reggini, impettiti sul presentat’arm. Intorno alla stazione l’assedio festante di migliaia di reggini.
In auto percorre il corso tra due ali di folla in delirio. Mussolini corre ad inaugurare la Casa del Fascio con il Sacrario dei caduti della Rivoluzione e delle guerre fasciste d’Africa e Spagna, ascolta un coro del Dopolavoro che gli canta l’Inno a Roma e Calabrisella. Poi sale sul pulpito di pietra e loda la tempra dei calabresi, incita ad essere un popolo fecondo prima di ogni altra cosa (cchiù pilu pè tutti, avrebbe detto Cetto Laqualunque mezzo secolo dopo), poiché i popoli giovani e fecondi sottometteranno i popoli vecchi e sterili, azzera la questione meridionale e predice che l’italiano, come tutti i popoli giovani, è pronto ad indossare lo zaino, non teme il combattimento ed è sicuro della vittoria (!).
In tutto un discorsetto di dieci minuti, interrotto continuamente da applausi, inni e cachinni. Congeda così i centomila intervenuti che lo aspettavamo da ore in trepidante attesa. Quindi una rapida visita al Porto, una ad un nuovo rione dove il Duce dà il primo colpo di piccone, la Mostra delle realizzazioni fasciste e quella delle Industrie autarchiche al palazzo della Provincia.
I nostri congiurati arrivano trafelati in quella che sarà Piazza del Popolo, quando ormai Mussolini è già andato via e la piazza si era velocemente svuotata per rincorrere l’auto del Duce verso gli altri luoghi della città dove erano previste alcune soste. Non c’è bisogno di commenti, si guardano in faccia e si allontanano di passo da quel luogo, simbolo di una cocente sconfitta. Il compagno di Reggio li saluta con un cenno del capo e se ne torna al suo carretto, forse anche sollevato per essere arrivato indenne sin lì.
Così mentre Mussolini va verso il porto, loro si dirigono verso la parte opposta, inerpicandosi verso i quartieri più alti di Reggio che apparivano deserti e abbandonati. Tutta la popolazione si era riversata nel centrocittà. Trovano però un negozietto aperto e si comprano qualcosa da mettere sotto i denti. Un chilo di pane, un cartoccio di olive, un litro di vino. Rapida colletta per racimolare le tre lire e mezzo da porgere al negoziante, si dividono il cibo e si allontanano a gruppi di due verso una piccola villetta con poche aiuole. Sarebbe il colmo farsi arrestare adesso : cu ‘u culu ruttu e senza cerasi!
Intanto Mussolini era rientrato in stazione. Erano le 13.30 e alle 14 sarebbe partito col treno per Vibo Valentia, rincorso finanche sui binari da ali di folla esultante. Era stata proprio una giornata trionfale! I giornali nazionali dell’indomani ne parleranno su tutte le prime pagine, sbalorditi dalla grande mobilitazione di popolo e dall’entusiasmo, quasi delirante, tributato al Duce.
A pomeriggio inoltrato i nostri quattro di Santa Maria sono alla stazione Succursale e, con le pive nel sacco, si apprestano al viaggio di ritorno per Cinquefrondi. Arriveranno quasi in serata e, scambiato un fugace cenno di saluto, corrono alle proprie case, dove si tapperanno per giorni e giorni. E nelle botteghe artigiane parte una prevedibile, feroce coglionella. La cellula anarchica non si riunirà più per i prossimi tre anni. La vicenda attentato al Duce sarà un tabù per i successivi trent’anni. I nomi stessi dei quattro partecipanti rimarranno più o meno segreti, soprattutto per evitare le stilettate ironiche, piuttosto che per prudenza e ragionevole riserbo.
Franco Tropeano offre a questo nostro sito, al quale ci dedichiamo con passione, un’originale racconto “semiserio”. Storia, storiografia,con qualche nota di “gossip” e vicende paesane di fine anni ’30 si intrecciano fra di loro con un collante antifà che non poteva mancare alle righe di Franco. La chiosa del suo racconto accentua i tratti burleschi del mancato botto che sognava la coppia”Profeta” “Scatulinu”, come venivano chiamati a Cinquefrondi Angelo Ferraro e Michele Galluzzo. Di essi Franco ha naturalmente ammirazione ideologica. Ma, di fatto, i due furono due personaggi caratteristici, più che effettivamente rivoluzionari. Il primo, che Franco definisce anarchico collettivista, visse la sua vita “sanza infamia e sanza lodo” nella sua cantina, senza uscire mai dal contesto paesano, senza mettere sù famiglia, con la passione dello strano strumento musicale, con legami poco “collettivistici”; il secondo, Galluzzo, che Franco definisce anarchico individualista, nella vita fece altrettanto e connotò la seconda parte della sua esistenza con lo scarso utilizzo del contenuto dell’acquedotto; penso lo abbia fatto perchè l’acquedotto lo volle il podestà. A questa contestazione aggiunse quella del Vespasiano (l’orinatoio), perchè preferiva i muri del Cafio. Da vero anarchico individualista. Il suo motto “libero è il pensiero e verso l’anarchia va la storia” si è magnificamente realizzato in questa repubblica delle banane che è l’Italia. Tutto – ed in tutto- è “all’ancallàriu” tutto “suttasupa”, senza gerarchie di valori, di competenze, di meriti. Ai due si aggiunge nel racconto di Franco una terza figura caratteristica del paese, l’avvocato Celestino Pronestì. Tutti lo ricordiamo per il fatto che non esercitò la professione, vivendo fra la sua abitazione di via Milazzo e le comode sedie dei bar di Agostino Pronestì e Luigi Albanese. E guai a chi lo contraddiceva. Nell’unica volta che mise piede in Pretura per difendere un imputato in una causa civile, rivolto al P.M. disse”….in nome dell’articolo – tal dei tali – mi oppongo, Vostro onore”. Al che, il P.M. contestò all’avv. Celestino Pronestì che l’articolo che aveva citato si riferiva ad un altro reato. E allora, l’avvocato Celestino replicò ammansito “…va bene Vostro Onore, allora mi ritiro l’oppongo”. Proprio così, povera lingua italiana! Non mise più piede in pretura. Franco Tropeano ci offre, tra tanto altro, alcune note storiche legate al rapporto del capo del fascismo con la sua amante. Si può biasimare quanto si vuole quel rapporto e quella figura di donna. Ma quando i fucilatori, il 28 aprile a Dongo chiesero a Claretta Petacci di scostarsi da Mussolini se non voleva morire, ella volle finire la sua vita accanto a quell’uomo. Quando si compiono tali atti, dietro non c’è il “gossip” politico che traspare dalle note dedicate di Franco Tropeano,c’è un valore iniziatico e fondante che si chiama fedeltà, sacrificio della propria vita per amore. E quindi c’è pathos, c’è eros, c’è thanatos.
A questo punto, non mi resta che augurare al fondatore del sito Francesco Gerace, a Franco Tropeano, ai collaboratori, a lettori e visitatori, ai compaesani vicini e lontani un Nuovo Anno prodigo di salute, serenità e libertà di pensiero.
Cari lettori, caro Mimì, colgo l’occasione per ricambiare gli auguri e per fare alcune puntualizzazioni. Dice un nostro vecchio adagio: “Di chidu chi vidi, lu menzu cridi; di chidu chi senti no cridiri nenti”. Ho avuto sempre in simpatia quelle persone, da Venanzio a Mela Terramotu, derise e bullizzate dalla stupidità generale. Per quel poco che ho conosciuto di Galluzzo e Ferraro, mi sono sembrati due poveretti un po’ eccentrici, che comunque non hanno mai fatto male a nessuno, a differenza di molti altri. Avevano i loro sogni e le loro passioni e ciò mi è bastato. La vita degli uomini illustri (lo 0,1 % della popolazione) non mi ha mai appassionato, preferisco guardare al restante 99,9 %. Certamente sono vite anonime ed insignificanti, ma quando un frammento della loro vita incrocia la Grande Storia, credo che debba essere raccontato. E non mi scandalizzo se la prostata di un povero vecchietto non permette lunghi tragitti. Certamente avevano commesso un crimine orrendo: erano celibi! E forse durante il ventennio avranno pure pagato la famosa tassa sul celibato. Caro Mimì, mi parli di eros, di pathos, ma il motto non era dio patria famiglia? O valeva solo per il popolo bue? Ah! Dimenticavo, da che mondo è mondo, tutti i caporioni reazionari predicano male e razzolano peggio. Una famiglia come si deve non sono mai riusciti a farsela né a mantenersela.E’ proprio un mondo alla rovescia! Mi sa che Vannacci ha visto giusto. Certamente mi aspetto una tua replica: vuoi sempre avere ragione, come Celestino. Buon Anno.
Caro Franco, non voglio avere sempre ragione, ma ritengo soltanto che quei personaggi caratteristici del paese di cui tu racconti non vengano scambiati, nè ricordati come grandi menti e le loro vite non vengano confuse con la Grande Storia e i grandi protagonisti – nel bene e nel mane – della Storia. Puoi raccontare quanti aneddoti desideri su compaesani del tempo che fu, lo fai anche molto bene e con uno stile narrativo che mi piace. Lo fai però a senso unico. Io penso che stare dalla parte degli ultimi, degli indifesi, dei poveri, dei faticatori della vita non si esaurisca nell’aver militato e nel militare nell’area politica che si è riempita la bocca e anche il portafoglio a parlare di essi. E penso pure che raccontare dei quattro cincrundisi che sognavano addirittura il grande atto a Reggio Calabria a Marzo del 1939 ha il sapore più della trama farsesca che di Storia. Poi, per quanto mi riguarda, la mia vita, la mia stessa ragione di vivere è costituita dal rapporto irrinunciabile con quel 99% di gente semplice ed umile di cui tu parli, ma non mi faccio influenzare per chi hanno votato, per chi votano e per chi voteranno. Sicuramente non ritengo che la Storia l’abbiano fatta loro, la Storia l’hanno fatta i grandi uomini, le èlite rivoluzionarie. Oggi non la fa più nessuno perchè siamo alla fine della Storia, siamo all’avvenuta presa del potere da parte delle orrende èlite finanziarie ed usuraie mondiali, che hanno le loro quinte colonne negli Stati Nazionali. Siamo al mondialismo economico. Ezra Pound profetizzò già dal 1943 quanto si sarebbe verificato gradualmente nel mondo. Lui, americano di origine, pagò per le sue idee coraggiosamente anti americane e anti usuraie con anni di detenzione in una gabbia, come una bestia. Altro che moschetto 1891 e anarchici individualisti e collettivisti. Altro che Vannacci, Meloni, e caporioni reazionari da destra nazionale. Di loro me ne frego!