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Combattivo, generoso, appassionato. E’ stato per anni la bandiera della Cinquefrondese. Michele Manferoce è il calciatore che forse più di ogni altro ha incarnato il sogno sportivo della nostra cittadina. Ha giocato con la squadra biancoceleste fino all’età di 39 anni, e avrebbe continuato ancora a lungo, perchè il fisico glielo consentiva, ma non glielo ha permesso l’orgoglio e il suo senso di appartenenza al club cittadino, e così ha detto basta.
La sua carriera è stata intensa e non priva di emozioni, vinse diversi campionati, sfiorò per due volte la serie D, si beccò una squalifica a vita poi rientrata, e ne mancò un’altra per un pelo, non male per uno che tutto sommato amava il gioco muscolare anche se dentro di sè custodiva lo spirito di un vero artista, tanto che riuscì persino a fare una copia della statua di san Michele.
Era un difensore Michele e in campo si faceva rispettare, con i gesti e con le parole. Alto, atletico, ben piazzato, non tirava mai indietro la gamba, menava, sapeva essere molto duro, ma tutto sommato non cattivo. Gli avversari lo temevano, ma soprattutto lo rispettavano.
Ha esordito con la prima squadra a 16 anni, nel 1968. Ma già da qualche anno, di nascosto dal padre Tommaso (anche lui vecchia gloria del calcio cittadino) si recava al campo sportivo con i suoi compagni per inseguire il pallone.
Erano anni di passione sfrenata dei ragazzi cinquefrondesi per il calcio. Da poco tempo era stato inaugurato il nuovo stadio voluto dal sindaco Corrado Cimino. Non c’era un solo ragazzino del paese che non sognasse di vestire la maglia della prima squadra su quel terreno di gioco. Michele non dovette aspettare troppo. Appena scoccati i sedici anni regolamentari, fu infatti arruolato con i grandi. E due anni dopo ebbe anche l’onore di scendere in campo nella formazione cinquefrondese che nel 1970 affrontò addirittura la Reggina in un’amichevole di lusso che si svolse nel nostro paese. Fu un’autentica festa dello sport, gli spalti gremiti, la gente felice di vedere da vicino gli amaranto che in Serie B se la giocavano con i grandi club del nord Italia. Altri tempi, poveri ma buoni, senza sky e senza telefonini; internet ancora nella mente di Dio, lo sport domenicale una passione condivisa e diffusa. Per vedere il grande calcio bisognava spendere soldi e andare allo stadio di Reggio Calabria, cosa non alla portata di tutti.
Manferoce è sempre stato un punto di riferimento per la squadra, stava in campo con personalità, quella maglia addosso andava onorata, perciò lui era fra quelli che non si arrendevano mai, consumava fino all’ultima goccia di energia e credeva nella rimonta impossibile anche quando a pochi minuti dalla fine la squadra era sotto di due gol. In realtà era il suo modo di interpretare l’impegno di calciatore, quasi da soldato d’altri tempi, un militare in calzoncini chiamato alla battaglia della vita, ogni partita come una finale di Champions, in cerca di palloni da rubare agli avversari. Calcio sanguigno, autentico, muscolare, ginocchia sfasciate e tanti calci negli stinchi. Lunghe sgroppate sulla fascia laterale, il cross per i compagni e poi subito a coprire la difesa e riprendere la marcatura sul ‘suo’ attaccante; per le gambe di Manferoce ogni partita era lunga 90 minuti e un numero imprecisato di kilometri.
Michele era figlio e nipote d’arte. Suo papà Tommaso, falegname con botteva dalle parti del Carmine, fu infatti tra i pionieri del calcio a Cinquefrondi a partire dalla fine degli anni Venti. Insieme con altri personaggi diventati popolarissimi, come Luigi Albanese futuro vicesindaco e sindaco del paese, Ciccio Tropeano, Raffaele Bellocco, Ciccio Ascone, Angelo Bellocco, Agostino Pronestì, Luigi Giordano e altri, diede vita alla squadra di Cinquefrondi che poi partecipò ai primi campionati.
Quei calciatori furono i primi a vestire la maglia biancoceleste, diventata poi quella ufficiale della squadra cinquefrondese. La prima divisa completa fu infatti donata da concittadini che avevano fatto fortuna in Argentina, e per rispetto del paese che li aveva accolti, avevano scelto per le nostre magliette i colori della nazionale che sarebbe stata di Maradona. Affettuosità d’altri tempi, e Cinquefrondi è diventata biancoceleste per sempre.
Tommaso Manferoce seguiva con orgoglio la passione calcistica del figlio, anche se temeva che questa lo avrebbe distolto dagli studi, così a volte faceva il severo e il burbero con Michele intimandogli di pensare alla scuola piuttosto che al calcio, in realtà era contento di lui e lo lasciava fare, e poi il calcio è sempre stato nel sangue di quella famiglia.
Qui dobbiamo dire di Italo Manferoce, zio di Michele (fratello di sua madre Gioconda, anche lei di cognome Manferoce) grande talento calcistico di scuola argentina e anche di sangue per metà argentino. Italo era figlio di Giuseppe Manferoce che in anni lontani era emigrato nelle pampas e messo su famiglia con Ludivina, una ragazza del posto. Il povero Giuseppe restò presto vedovo, visse un periodo difficile con quattro ragazzini da allevare, così decise di tornare a Cinquefrondi, era il giugno del 1923.
Italo intanto cresceva e giocava, giocava bene. Per farla breve, il giovanotto finì alla Palmese in Serie C. Era un giovane impetuoso e pieno di talento, probabilmente destinato a un futuro in categorie ancora superiori, chissà Ma il suo sogno si spense miseramente per un disgraziato e controverso incidente, a causa dell’esplosione di un petardo, che gli fece perdere un occhio. E addio sogni di gloria.
Il ragazzo non aveva colpa, si trovò a passare per caso vicino al comando dei vigili in via Veneto, proprio nel momento di un’esplosione accidentale, diciamo così, che lo raggiunse al volto. Fu una catastrofe da tutti i punti di vista. Italo aveva 23 anni, carriera finita. Era il 1938.
Ma torniamo a Michele. Ha giocato per tutta la vita nella Cinquefrondese. Lui ne è sempre stato orgoglioso, ma in due occasioni stava per cambiare casacca. La prima all’inizio degli anni 70, lo voleva il Polistena all’epoca in Serie D, bella squadra (e discreta forza economica). L’allenatore dei rossoverdi Elvio Guida venne a Cinquefrondi per incontrarlo.
Tra cinquefrondesi e polistenesi c’è sempre stata forte rivalità nello sport, le tifoserie venivano spesso alle mani durante i derby, che erano infuocati come finali di coppa del mondo. Ma Michele Manferoce sarebbe andato volentieri al Polistena, in quella squadra giocavano diversi suoi amici e soprattutto come fai a dire di no a un club di Serie D ? ma l’operazione non andò in porto.
“Loro mi volevano, racconta oggi l’ex calciatore, ma la dirigenza non sostenne la richiesta. Anzi alcuni misero in giro la voce che era stato mio padre a mettere il veto, per questioni di campanilismo, ma non era affatto vero”. Hai mai affrontato l’argomento con tuo padre ? “certo, ne parlammo. Lui mi vide parlare con l’allenatore del Polistena. Non lo conosceva. Mi chiese chi fosse e che cosa voleva. Gli raccontai tutto, mi rispose ‘se vuoi andare al Polistena vai, vai”.
In realtà, secondo Michele. quel treno verso la Serie D passò veloce senza fermarsi perché la dirigenza della Cinquefrondese “non riuscì ad affrontare la questione, si mise un pò di traverso, magari avrebbero voluto darmi il via libera, ma poi pensarono che bisognva cercare qualcuno per sostituirmi e magari spendere dei soldi che non c’erano, mentre io giocavo gratis; insomma, come fu e come non fu, l’operazione desiderata da Guida non si fece”. Michele ci restò male per quel diniego, ma da vero sportivo non fece storie e non l’ha mai fatto pesare in campo, dove continuò a dare anima e corpo per i colori cinquefrondesi.
Anni dopo il treno per la Serie D tornò a passare per Cinquefrondi, stavolta era la Palmese a farsi avanti per il terzino volante. E’ il 1974, l’anno del campionato di Promozione, il primo nella storia cittadina. La Palmese offriva un paio di giocatori, in cambio di Michele. “Ma c’era il precedente del Polistena” racconta oggi Manferoce, “e fui io a dire di no. Ringraziai la Palmese per la stima che mostrava con quell’offerta, Palmi era una bella piazza calcistica, lì aveva pure giocato mio zio. Ma dissi di no lo stesso. Mi sentivo ancora ferito. La prima volta io sarei andato di corsa al Polistena e me l’impedirono, la seconda venne fuori il mio orgoglio e il no lo dissi io. Non volevo essere scambiato come merce”.
Quell’anno in occasione del derby di andata a Polistena, a fine partita scoppiarono violenti tafferugli, perchè l’arbitro aveva dato un rigore in netto fuorigioco alla squadra di casa. Volarono schiaffi in tribuna e in gradinata, e si menarono pure in campo. “Nel parapiglia -racconta oggi Manferoce- ricevetti una spinta dallo zio di due del Polistena, Michele e Peppe Sorace, miei carissimi amici e ottimi giocatori. Nella spinta persi l’equilibro, con la mia nuca finì per colpire la nuca dell’arbitro. Subito mi scusai e lui disse ‘ho visto, ho visto, non si preoccupi’. Invece qualche giorno dopo mi ritrovai squalificato a vita, e come me pure Roberto Paolillo, il nostro centravanti che invece aveva dato un gran calcio all’arbitro. Io poi partii per il servizio militare e davo per scontato che con il calcio avevo chiuso, anche se mi sentivo innocente. Al ritorno del militare la squalifica mi venne tolta, senza nemmeno presentare reclamo. La vicenda di quella partita era stata infatti riesaminata in sede arbitrale ed era emersa la mia innocenza. Così ripresi a giocare”.
In un’altra occasione ‘calda’, Manferoce fu meno innocente, ma lo salvarono i buoni uffici, diciamo così, dell’allenatore Peppe Giancotta e il sacrificio del dirigente Peppe Valentino, una pasta d’uomo, che si prese colpe che non aveva e si beccò una squalifica a vita, al posto di Michele. Era successo che Manferoce durante una partita in casa venne espulso; “ero capitano, continuavo a dire all’arbitro che quelli dell’altra squadra perdevano troppo tempo, eravamo 1-1 e volevamo vincere. L’arbitrò mi cacciò, fu sprezzante nei modi e nei toni. A fine gara ci fu grande trambusto, gli animi erano eccitati, in tanti andammo a protestare, nella mischia partì una bella manata all’arbitro. Temevo una lunga squalifica, non so nemmeno se l’arbitro mi vide davvero o no mentre lo colpivo. Fatto sta che la squalifica a vita fu data sì, ma non a me, bensì al povero Valentino che così si immolò per salvarmi”. Nella vicenda ci fu lo zampino di Giancotta, che chissà come trovò il modo di far sapere all’arbitro che a colpirlo era stato un dirigente del club, appunto l’incolpevole Valentino. E Michele fu graziato.
Parliamo di Giancotta, allenatore polistenese che a Cinquefrondi è sempre stato di casa. Risponde Michele: “Giancotta era ed è un concentrato di grinta, ma ci capiva di calcio e aveva il rispetto di tutta la squadra, qualsiasi cosa dicesse lo prendevamo sul serio. Qui da noi, eccetto rarissimi casi, è sempre stato correttissimo. Di lui si dice che abbia fatto questo e quello, con il suo temperamento esuberante, la sua irruenza, i suoi modi sbrigativi, le urla che lanciava dentro e fuori dal campo ma in realtà era più fama che altro. Qui da noi, eccetto rarissimi casi, è sempre stato molto corretto. Su di lui ci sono leggende”, ma qualcosa è anche successo, come si è visto.
La partita più bella che ricordi ? “Cinquefrondi-Villese nel 1973, quella era una bella squadra, bravi giocatori e persone perbene con cui siamo rimasti amici e ancora in contatto. Quel giorno era o vinci o perdi, la svolta del campionato, ci serviva il risultato pieno. Fu una partita speciale che anche loro ricordano con piacere. Quel giorno fui al massimo e vincemmo 2-1”.
La sconfitta più amara ? “In prima categoria, ko in casa col Cittanova e poi retrocessi. Quel giorno di fine anni settanta, io rientravo dopo un mese di stop a causa di un ginocchio. Avevo portato il gesso e me l’ero tolto una settimana prima. Ho recuperato in qualche maniera e quel giorno sono sceso in campo. Stavamo perdendo 1-0, ci danno un rigore. Fin dall’inizio eravamo d’accordo che un eventuale rigore l’avrebbe tirato Fausto Pronestì o qualcun altro. Invece dalla panchina dicono che devo andare io sul dischetto, faccio presente che ho ancora il ginocchio insicuro. Tiro il rigore, la palla finisce sul palo e va fuori. Ci restai malissimo, eppure avevo detto chiaramente che non ero in condizioni psicofisiche ideali. Ricevetti pure delle critiche di qualche dirigente per quell’errore, dimenticando che ero lì a sostegno della squadra, pure mezzo infortunato, e che non dovevo nemmeno tirare il rigore; fu un episodio che mi segnò moltissimo”.
Michele ha tanto da raccontare, viene fuori che la sera prima dello spareggio del 1974 col Gallina per la vittoria del campionato, lui l’allenatore Giancotta e Peppino Scicchitano, storico dirigente del club e gran signore, si ritrovarono nel salone di quest’ultimo per un consulto sulla formazione. Giancotta in realtà aveva già deciso gli undici da mandare in campo, figurarsi se si faceva dare indicazioni da altri; ma quella sera fece il dubbioso e chiese un parere al buon Peppino e al più fidato dei suoi giocatori, per saggiarne la reazione. Disse: ‘mi chiedo se è il caso di far partire titolare Giacomo Belgio, non vorrei che con la sua irruenza provochi un rigore o si fa espellere; quasi quasi metto in campo Totò Candido”.
L’astuto Giancotta aveva già la risposta, ma gli serviva di condividerla e farla digerire all’ambiente, perché Belgio era una colonna della squadra, uomo generoso e combattivo sebbene troppo irruento, e lasciarlo in panchina nello spareggio era una scelta davvero dolorosa; ma Candido, 17 anni scarsi, talento da vendere, finora mai titolare, era ormai maturo per il suo esordio in una partita decisiva, e Giancotta vedeva lontano. Inutile dire che Scicchitano e Manferoce concordarono pienamente (“per me fu un parere doloroso, Belgio era un amico e un ottimo giocatore” racconta oggi Manferoce). Si sa come finì la storia, Belgio fu mandato in panchina e ci rimase malissimo, Candido fece una grande partita e spiccò il volo verso una bella carriera (di lui parleremo meglio in un’altra occasione) e soprattutto la Cinquefrondese piegò il Gallina e vinse il campionato.
A inizio anni 90 il titolo sportivo della Us Cinquefrondese fu ceduto a una società di Rosarno, e Michele Manferoce capì che era giunta l’ora di appendere le scarpette al chiodo. Tenere in piedi il club non era più possibile, il costo della squadra era diventato enorme, sponsor inesistenti, pubblico calato, c’era aria di abbandono generale. I dirigenti dell’epoca non ebbero alternative che cedere il titolo. Una scelta tremenda dopo molti decenni. “Ma io non volli essere ceduto a questa nuova squadra, a uno sponsor che mi pare si chiamasse Pomona, ho preferito chiudere la mia carriera come giocatore della ‘vecchia’ Cinquefrondese, sennò avrei giocato ancora per qualche tempo” racconta oggi Michele mentre, seduto sulla gradinata del ‘Cimino’, guarda quel terreno di gioco dove per anni è stato protagonista e tanti tifosi venivano a applaudirlo.
Manferoce allo stadio non ci va più da allora, “non so se fu per il fatto che la squadra non si chiamava più Cinquefrondese, o per un senso di presunzione, ricordo che non volli andare con il nuovo club, e poi non sono venuto più al campo sportivo. Mi sono posto anche la domanda: visto che non gioco io, non vado più allo stadio ? Non ho una risposta certa, ma credo di no, forse semplicemente mi ero disamorato e poi la Cinquefrondese che conoscevo io non c’era più, era diventata un’altra cosa con un altro nome”.
Il cuore sportivo di Manferoce è rimasto ai tempi di Arcangelo Zavaglia, “lo voleva Valcareggi alla Sampdoria, ma poi non lo prese perchè non aveva il sinistro mentre con il destro faceva l’impossibile”; o di Nino Faldino “il più grande che abbbia giocato qui da noi, un maestro, peraltro scomparso prematuramente”; e poi ancora di Rocco Amoroso e Pino Megna, Benito Foresta, Mario Iannello, Aurelio Belziti, Peppe Cosoleto, Mimmo Varsavia, oltre a quelli di Cinquefrondi, “sono tanti i compagni di quelle stagioni, impossibile ricordarli tutti, era un calcio diverso da oggi, più passionale e di livello qualitativo più alto, con tutti siamo rimasti amici”.
Manferoce ha amato la sua squadra, “a quella maglia ho dato tutto quel che potevo, ma penso di essere stato ripagato con qualche amarezza di troppo”. Della tua storia sportiva hai rimpianti ? c’è qualcosa che avresti dovuto dire o fare e non hai fatto o detto ? tornassi indietro rifaresti tutto alla stessa maniera ? “Mi imporrei in maniera diversa, spiega Michele; per quanto potessi sembrare focoso, ero invece molto pacato. Su alcune cose non mi sono mai imposto, su alcui miei diritti, e forse avrei dovuto farlo. Ma dovevano essere loro, i dirigenti a dirmi ‘vai’, invece non l’hanno fatto. Questo non mi è piaciuto”. Lui non lo dice esplicitamente, ma la ferita del no al Polistena brucia ancora.
Tanto altro ci sarebbe da dire di Manferoce, nella sua vita parallela, di artista e decoratore, lo faremo in breve: fu lui a realizzare la riproduzione in scala 50% della statua di san Michele che nel 1996 il sindaco Raffaele Manferoce e una delegazione di amministratori e cittadini donarono alla comunità cinquefrondese di Buenos Aires. “Nacque tutto da un’idea di Tullio Tropeano, ne parlò una sera col suo solito tono anche un pò scherzoso. Ma io dissi di no, era un lavoro tropo impegnativo, non sapevo nemmeno se ne sarei stato capace, quella statua in realtà sono due statue, una attaccata all’altra, cioè san Michele e il diavolo, un’opera complessa. La discussione finì lì. La mattina dopo, alla gente del mercato, che si teneva vicino al suo studio fotografico, Tullio diceva tranquillo che io avevo quasi finito una copia della statua di san Michele e che presto sarebbe stata portata a Baires. Gli amici si congratulavano con me; Ciccio Carlino che aveva anche parenti in Argentina mi rimproverò, ‘ma come, hai fatto questa cosa di nascosto senza dirmelo ?’ mi disse, non voleva credere che era tutta una diceria di Tullio. A quel punto accettai la sfida e mi misi al lavoro, in tre mesi realizzai la statua. Penso sia il mio lavoro più bello, e abbiamo fatto felici centinaia di concittadini”.
Chi pagò le spese ? “L’amministrazione comunale pagò soltanto la spedizione della cassa con la statua, 700mila lire circa. Tutto il resto l’abbiamo fatto gratuitamente io, Ciccio Bulzomì e Totò Misiti che mi ha regalato un sacco di colori, io presi solo quelli che mi servivano, perchè lui sempre generoso ne aveva portati tanissimi, che bastavano per fare cinquanta statue. Sul viaggio in Argentina furono dette tante sciocchezze in paese, in realtà ognuno pagò il viaggio di tasca propria, tutti avevamo parenti e amici dove andare a dormire. I cinquefrondesi di Baires ci fecero una grande accoglienza e vollero che il sindaco e un paio di noi fossero loro ospiti. Scoprimmo un mondo incedibile, una piccola Cinquefrondi dall’altra parte del mondo, con le stesse usanze e tradizioni del paese e la stessa lingua, come se non ci fossero migliaia di km di distanza e decenni di lontananza. Era come se il paese si fosse spostato lì; i nostri compaesani avevano portato lì la storia e la cultura cinquefrondese di quando lasciarono Cinquefrondi, e la mantenevano con un fortissimo senso di identità. Non è un fenomeno frequente, l’emigrazione verso gli Usa per esempio non ha dato vita allo stesso fenomeno”.
A Manferoce si devono molte decorazioni e restauri nella chiesa del Carmine, effettuati soprattutto al tempo in cui il rettore era don Fortunato Sorrenti, con il quale lui crebbe fin da bambino e che ancora oggi chiama affettuosamente ‘il compare mio’. Con Don Fortunato realizzò a quattro mani, quando aveva solo 15 o 16 anni, il fondale usato ancora oggi nel giorno di Venerdì Santo, in occasione dell’Agonia, uno dei riti principali della nostra tradizione. Al Carmine il piccolo Michele familiarizzò addirittura con il maestro Mazzullo, un gigante dell’arte religiosa, che lavrò a lungo per realizzare gli splendidi affreschi che adornano la volta della chiesa.
Nel 2001 Michele vinse una gara bandita dall’Amministrazione comunale del tempo, per la realizzazione di quattro grandi quadri che oggi si possono ammirare nella Mediateca, alla vecchia Pretura: “il tema era l’artigianato e la commissione scelse i miei bozzetti. Uno riguardava Giovanni Zuccalà il calzolaio, l’altro era su Lona Raso il sarto e direttore della banda; il terzo era Chindamo il seggiaro, il quarto mio padre del quale ho ricostruito la bottega. In quelle immagini c’è il mondo dell’artiginato e anche della sinistra politica di quel tempo: con Zuccalà c’è un riferimento al Fronte Popolare, con mio padre c’è la figura di Arcà un deputato socialista di Anoia; nel quadro di Lona Raso è raffigurato Matteotti, lo scelsi perchè il sarto era perseguitato dal maresciallo dei carabinieri che andava a origliare alla sua porta, per sentire se parlava di politica e di comunismo. Raso nascondeva la foto di Matteotti nel sottoscala per non farla scoprire dal maresciallo. Della bottega di mio padre ho conservato tutto e alcuni strumenti sono ancora utilizzabili, ho ereditato da lui e da mio nonno la passione per questo tipo di lavoro”.
Con Michele l’intervista sembra non finire mai, ogni volta che tocchi un argomento, si apre un mondo, e lui è un fume in piena di ricordi e di buona memoria. Sembra un duro a volte, ma poi l’ex combattente del terreno di gioco, mostra il suo cuore d’oro e si commuove quando ricorda due cari amici di infanzia che se ne sono andati troppo giovani, Walter Bellocco qualche tempo fa e Enzo Marvaso l’anno scorso, con i quali ha condiviso la gioventù, le ragazzate, il catechismo, i viaggi con don Fortunato e il primo impegno politico nella sinistra. Uomini e sentimenti di altri tempi.
Foto di Michele Manferoce, Mario Albanese, Francesco Gerace e altri non identificati
Grazie per questo racconto che rispecchia la volontà di vita dei 5frondesi di ieri e vedo anche di oggi….
Ciao Michele Grande Amico d’infanzia e d’oggi…