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Il 15 dicembre del 1927, due giorni prima che compisse 50 anni, stroncato da un malore improvviso, forse un infarto, morì il dott. Francesco Ferrari, medico condotto efficiente, bravissimo e amatissimo da tutta la popolazione di Cinquefrondi. Lasciava la moglie e quattro bambini, il maggiore dei quali di appena sei anni. Per il paese furono giorni di lutto, i cinquefrondesi piansero letteralmente il loro eroe caduto.
Ferrari era un medico speciale, non curava soltanto la salute dei suoi pazienti, ma si occupava di loro con tutto il cuore, non si faceva pagare dalle persone povere (e lui era tutt’altro che ricco), e si prodigava in ogni modo verso chiunque lo cercasse. Era anche un bravo medico, così venivano a chiedere i suoi servigi anche da fuori paese, e lui non aveva problemi: prendeva la sua borsa con gli attrezzi del mestiere e partiva. Di giorno e di notte. Non c’era casa che il dott. Ferrari non frequentasse, case di ricchi e tuguri di poveri, e verso tutti aveva sempre lo stesso atteggiamento di disponibilità e gentilezza, e di enorme compassione verso i sofferenti.
Alcuni lo chiamavano capitano anzichè dottore, per via dei suoi trascorsi di guerra. Nel 1915 infatti si era arruolato nei reparti di sanità dell’Esercito e per 44 mesi con il grado di Capitano Medico aveva servito la Patria sul fronte del Carso, quello più terribile e pericoloso, nel quale anche numerosi cinquefrondesi persero la vita insieme con molte migliaia di altri italiani.
La vita del capitano medico Ferrari non era cominciata nel migliore dei modi. Aveva sette anni quando perse il padre Bruno, e poco più tardi rimase anche orfano di madre. Potè crescere e proseguire gli studi grazie al sostegno economico di uno zio, si laureò in medicina all’Università di Bologna, mentre a quella di Roma si specializzò in Clinica Oculistica, Pediatria e in Ostetricia e Ginecologia.
Dopo la guerra, Ferrari tornò in paese, divenne Ufficiale sanitario di Cinquefrondi. In quegli anni cominciò a occuparsi anche di opere varie di carità per le famiglie povere. Fu a capo del Patronato Scolastico e componente della Congregazione di carità (che a dispetto del nome clericaleggiante, era invece un organismo del Comune).
Aderì convintamente al fascismo, fin dalla prima ora, fu un militante molto accanito, ma non ricoprì mai cariche politiche, perché tutto il suo tempo e le sue energie erano in realtà dedicate alla cura dei malati e alla sua famiglia, cosa che faceva con particolare affettuosità, memore probabilmente delle sofferenze patite per l’essere rimasto orfano fin da piccolo. Sua moglie si chiamava Teresina Margiotta, e ai loro quattro bambini la coppia aveva dato il nome di Bruno, Dolores, Giovanni e Giacomo.
La grandezza di questo personaggio emerge anche dalla cronaca del suo funerale, che venne pubblicata in un opuscolo curato dal poeta Pasquale Creazzo, di cui peraltro era molto amico, e poi dato alle stampe dalla famiglia. “Alle 15 del 16 dicembre 1927 la salma di Francesco Ferrari, portata religiosamente a spalla da devoti amici muove da casa per il Corso Garibaldi, preceduta dai rappresentanti del Clero, dell’Asilo infantile, della banda cittadina e delle confraternite religiose del Carmine e del Rosario e da una confraternita della vicina Polistena. Dietro al feretro, i congiunti e gli amici più intimi a capo scoperto. E poi a seguire i rappresentanti del Fascio di Combattimento, della sezione Combattenti, dell’Associazione operaia, e poi ancora della Congregazione di carità, della Rappresentanza Municipale, delle Rappresentanze scolastiche e di altre associazioni, tutte munite di bandiere e di corone. Dietro a queste, le bande di Cittanova e quella di Cinquefrondi, che si alternavano nell’eseguire la mesta musica dei cortei funebri”.
Creazzo ci informa della presenza di “un immenso stuolo di popolo, nel quale si notavano le più distinte personalità dei paesi del Circondario, affollati ai lati e dietro la venerata bara; mentre numerosissime gentilizie carrozze dai cavalli abbrunati ed una lunghissima fila di automobili portanti fiori freschi e corone chiudono la veramente rara dimostrazione di compianto e di lutto. Eseguita la rituale benedizione nella chiesa del Carmine, il corteo fa ritorno sullo stesso Corso, ripassando dinanzi alla desolata casa del defunto. Non è descrivibile la scena commovente di dolore che qui avvenne: la vedova, i congiunti, i bambini -ed in braccio alla mamma sua anche il più piccolo, ancora lattante- dall’alto dei balconi mandano baci, baci infiniti al dolce e caro estinto che lentamente e per sempre si allontana dalle domestiche mura”.
Il corteo diretto al cimitero si ferma quando arriva davanti alla pretura, e qui si tengono i discorsi commemorativi. Sembra difficile crederci, ma ci furono ben sette persone che presero la parola per ricordare il medico Ferrari. Non si ricordano cerimonie di questo tipo per altre personalità; a suo tempo, nel 1933, nemmeno il Podestà Della Scala riceverà prima della sepoltura così tanti onori.
Ma non è tutto qui: l’elenco delle persone chiamate a ricordare il professionista scomparso fu incredibilmente assortito per cultura e appartenenza politica e ideale. Il primo a prendere la parola fu il Podestà Della Scala, poi il segretario del Partito fascista l’avv. Angelo Misiti, quindi il medico e professore Antonio Moricca (cognato di Della Scala). Il quarto a prendere la parola fu il prof. Giuseppe Longo, quindi il prof. Ernesto Messina, infine il poeta Pasquale Creazzo e il parroco don Domenico Carrera.
Sarebbe troppo lungo riportare per intero i discorsi di tutti; alcuni stralci aiutano a farsi un’idea su che tipo di persona Cinquefrondi avesse perso, perché il capitano medico Ferrari era ben più di un semplice dottore e la sua scomparsa fu un vero e proprio trauma per la popolazione.
Della Scala esordì dicendo: “Perché, ditemi, questa apoteosi spontanea, sincera, affettuosa di compianto ci riunisce e ci affratella nel dolore, attorno a queste spoglie mortali ? Francesco Ferrari fu virtuoso cittadino, professionista valoroso, quanto modesto e caritatevole, marito e padre esemlare. Ecco la risposta che raccolgo dal vostro labbro.
La commozione mi vince, la parola non la trovo, il mio povero ingegno vacilla, il mio eloquio disadorno non può, dunque tratteggiare, neppure fugacemente, la figura dell’uomo che il destino rapisce alle famiglie e al paese nativo. Io lo ricordo giovinetto, ed era l’idolo, il sogno, la speranza del suo vecchio zio che gli prodigava le carezze dei genitori perduti; lo ricordiamo tutti, apostolo di carità, nei tuguri degli infermi e dei derelitti, dove portava i tesori del suo cuore, la parola confortatrice della sua mente eletta, le risorse del suo ingegno, l’anima sua pura e immacolata. E nulla chiedeva o pretendeva, se non il conforto che consola coloro che operano e fanno il bene per il bene.
Ecco che cosa disse, fra l’altro, l’avv. Angelo Misiti, segretario del Partito fascista: “Francesco Ferrari era ben conosciuto e apprezzato nel nostro ambiente e fuori: di animo mite, di sentimenti signorili, era professionista valoroso e capace; era uno dei pochi che onoravano il luogo natio per dirittura di carattere, per intelligenza, per nobiltà di sentimento”. (…) E fu ottimo anche nella vita pubblica. Ricordate il periodo angoscioso della guerra. Si era fidanzao da poco e dovette partire per il fronte. Sentì la necessità della guerra, non discusse, non esitò, partì ! Eppure poteva comodamente adagiarsi in uno dei tanti ospedali sparsi qua e là fuori dalla zona di operazioni…non volle; glielo vietava la sua dirittura morale, il suo profondo amor di patria…e da Capitano medico, per 4 nni, fece intero il suo dovere in prima linea.
Quando più tardi vide pericolare la patria sotto l’ondata bolscevica, Egli senza schiamazzi, senza esibizioni, senza vane parate, aderì ai principii rinnovatori del Fascismo e fu fedele milite, e non tollerò che altri criticasse il suo atteggiamento ed ebbe parole fiere per alcuni, che egli non vide trepidare come egli trepidò, pr la salvezza del Duce. (…) Rivestì altre pubbliche funzioni e in tutte le mansioni portò il sereno contributo della sua esperienza, senza lasciare sulla via rancori, odii e risentimenti, ma seminando largamente il bene.
Era professionista valoroso: forse non tutti sanno questa verità, perché egli esercitava la sua professione come un apostolato: non era un mercatante della medicina, non ambiva clientela, non agiva per interesse; svolgeva la sua opera benefica silenziosamente, all’ombra, starei per dire, ma con una capacità eccezionale, con raro intuito.
Ciò attestano centinaia di ammalati, che della sua scienza ebbero i sicuri benefici. Bastava poi avere una discussione con lui su un argomento qualsiasi per accertare la sua larga preparazione, il suo intuito non comune. (…) Questa è la nobile figura di Francesco Ferrari, che io ho cercato di tratteggiare con rapidi e fugaci cenni, ma con impari forze: del resto più che sapiente parola, il pianto di un’intera popolazione, il sincero cordoglio di una folla imponente, stretta e serrata, attorno alla cara salma dice che egli fu buono, fu perfetto, fu caro al Cielo”.
Parole insolite (anche per motivi diciamo così politici) e molto significative furono quelle di Pasquale Creazzo che di Ferrari era molto amico e lo chiamava affettuosamente Ciccillo: “Spesso e volentieri signori, bugiarda è la parola nelle funebri onoranze. Le convenienze, il fasto del casato, le larghe parentele, il censo, le cariche, portano di conseguenza i consueti discorsi di elogio; che se non sono addirittura un oltraggio alla memoria dell’estinto, sono perlomeno un contrasto con la pubblica interna opinione. Perché, o signori, non è facile, specie per le contingenze di vita che attraversiamo in questo scorcio turbinoso di secolo, aver passata la gioventù e la vita senza lasciar dietro di sé uno strascico di rancore o un’ombra per quanto lieve di un male operato, di un malinteso. Ben altro è il doloroso straziante caso di oggi !
Il dottore Ferrari, l’indimenticabile Ciccillo, nel suo breve, fugace cammino della vita, lascia dietro di sé una scia luminosa di amore; una generale eredità di benedizioni e di inestimabili affetti. Ma si può anche non aver mai fatto male ad alcuno e non lascia quindi né odii né rimpianti. E questa è pura verità, sentita, da me, da tutti voi, o cittadini ! Quest’onda dolorante di popolo, non per le solite menzognere convenienze segue oggi dunque il lugubre, solenne funereo mesto corteo ! ma solo per il vivo amore al caro estinto, che ebbe sempre il sorriso per tutti, e di tutti fu indistintamente amico. (…) Da stamane, da quando si seppe la triste inaspettata novella, non vi è famiglia che non sia costernata; non vi è casa in cui non si versino amarisime lagrime ! non vi è tugurio in cui non si senta il singulto dell’angoscia; non vi è cittadino, non vi è operaio, non vi è umile, non vi è povero che non sia trafitto dal dolore, e che non abbia impresso nell’animo il quadro penoso, straziante della cara esistenza finita; della trafitta desolata, giovane consorte e degli orbati innocenti suoi bambini che tanto, tanto amava. E su tutti i visi, non lo vedete ? non lo vediamo ? copiose le lagrime scorrono ! Ed in tutti i volti lo squallore dell’animo si legge. Ecco le sentite onoranze, la costernazione generale per la perdita cittadina. Ecco il sincero meritato elogio, l’universale dolore.
E io che ebbi la fortuna di conoscere tanto bene e da vicino, dalla infanzia alla morte, il gran cuore del perduto fraterno amico; io che spesso vidi inumidirgli il ciglio per le umane miserie; per le sofferenze del povero, in nome degli operai, in nome dei poveri che hanno perduto in lui il simbolo dell’evangelica bontà; il benefattore e l’insostituibile prezioso amico; con l’animo affranti, reverente inchinandomi assumo la dolorosa, triste missione di pronunciare la grave e tremenda parola di Addio, Addio … e per sempre !”.
A completare il quadro su questa magnifica e poco conosciuta personalità (poco conosciuta ai tempi moderni) vale la pena riportare anche uno stralcio del discorso fatto dal parroco don Domenico Carrera, con il quale si concluse quella insolita orazione funebre a più voci: “…ebbe della sua professione il concetto di una santa e caritatevole missione, aggiungendo alle risorse della sua scienza il sorriso della bontà, il palpito del cuore affratellato con i sofferenti nel vincolo dell’umanità più pura e più profondamente concepita e intesa; sicchè al letto dell’ammalato, più che il medico che sana era l’angelo che conforta.
In momenti di lotta e di beghe paesane non si lasciò vincere dall’odio o da altra turbolenta passione: si schierò sereno, combattè sereno, sereno rimase dopo la lotta, amato, stimato da amici e da avversari.
Era sicuramente e profondamente religioso, non per vano sentimentalismo, né con ostentata bigotteria: della religione del Cristo aveva una concezione vera e pura, direi sinceramente manzoniana; sicchè per lui la religione non era formula astratta, ma fulcro dei doveri più augusti, codice di vita sociale. Quando si ricorreva a lui per i bisogni del culto cattolico era prodigo, generoso, signorile, e nello splendore della nostra sacra liturgia vedeva il riflesso di Dio, la manifestazione del Vero, di quel Vero che nel pensiero è arte, nel sentimento è religione, nel cuore è virtù, nel mondo civiltà. (…) Signori, sul feretro del dottor Ferrari sento un gran bisogno di piangere: per lui che se n’è andato così presto, per noi che restiamo così male”.
Le onoranze per il dottor Ferrari si conclusero il 14 gennaio 1928, con la messa a un mese dalla scomparsa, e con un gran concerto nella chiesa del Carmine all’insolito orario delle 9 del mattino. Fu anche l’occasione scelta dalla famiglia per ringraziare collettivamente quanti avevano partecipato solidali al loro immenso dolore.
Quel giorno nel fondo della chiesa fu collocato un artistico catafalco che rappresentava un camposanto rivestito di cipressi e fiori, croci e corone, in un mix di tristezza e luminosità. Alla presenza del Podestà Della Scala, di tutte le autorità cittadine e di tanta gente costretta a rimanere fuori per mancanza di spazio fu eseguita la Messa in musica del Valenzise, a cura della filarmonica locale diretta dal maestro Carlo Creazzo e cantata dal tenore Deguisa, dal baritono Rizzo di Reggio Calabria e soprattutto dalla star del tempo, il tenore Michele Longo di Cinquefrondi espressamente venuto da Milano per l’occasione. Longo in quel periodo viveva in Lombardia dove teneva i suoi concerti in vari teatri della regione e, fra gli altri, come si diceva, addirittura anche alla Scala dove si sarebbe esibito due volte.
Finita la celebrazione, la folla si raccolse in Piazza Castello e dagli scalini d’ingresso della chiesa, dove venne posta una foto del dottor Ferrari, l’avvocato e letterato Girolamo Spagnolo di Bovalino, nipote del defunto, concluse la cerimonia di commemorazione con un discorso.
Il figlio primogenito del medico Ferrari, si chiamava Bruno, aveva sei anni quando il padrè morì. Bruno Ferrari crebbe con i due fratelli e la sorellina all’ombra del ricordo del suo mitico papà. Completò gli studi all’Università di Messina e si laureò in legge. In paese tutti lo chiamavano avvocato, in realtà non esercitò mai la professione forense, perché scelse di fare il professore, insegnava francese alle scuole medie. Era un uomo colto e molto impegnato in politica. Di lui abbiamo parlato in altra parte del blog (https://www.cinquefrondineltempo.it/bruno-ferrari-luomo-che-pianse-per-moro/ ).
Sono stata piacevolmente coinvolta leggendo la storia di questi notabili cinquefrondesi dell’epoca dei miei genitori che con i loro accenni sommari mi sono entrati e impressi nella mia mente fin da piccola. Tra gli elogi funebri in onore al dottor Francesco Ferrari quello che mi è sembrato più confacente al mio credo è stato il discorso del parroco don Domenico Carrera. Grazie Francesco per avermi deliziata con questi tue ricerche affascinanti espresse con professionalità e delicato gusto.